Corsetto… quanto c’è da dire su di te
Quello indossato da Rossella O’Hara è rimasto indimenticabile. La paziente Mamy glielo stringeva in vita, fino quasi a non lasciarla respirare, facendole presente che il giro vita di una dama che si rispetti non deve superare il 45 cm.
Roba d’altri tempi, potremmo pensare, inorridite. E invece no perché, si sa, la moda è frivola. Tutto, dunque, torna, persino, gli orpelli che ci hanno condizionate per anni. Anzi, per secoli e dei quali eravamo convinte di esserci sbarazzare definitivamente.
Per rintracciare, dunque, il primo esempio di corsetto, occorre indietreggiare di parecchio. Il primo, pare, fece capolino nell’antichità. Le donne, greche e romane, sotto il chitone e la tunica, indossavano ‘speciali’ stringhe di cuoio. I lacci, opportunamente tirati, modellavano e assottigliavano la figura.
I bustier, nell’accezione più moderna, vanno rintracciati, invece, nel XVI secolo. Sorta di armature, in metallo, con una lunga punta sul davanti, chiusi sulla schiena attraverso l’utilizzo di una molla o una chiave. L’introduzione della ‘gabbia di Venere‘, così, anche, veniva definito, fu contemporanea alla moda Spagnola. Giunse in Italia a cavallo, a ribadire le conquiste di Carlo V. E, in breve, cambiò radicalmente il più libero costume rinascimentale, rivoluzionando la figura femminile. Una S ne sottolineava le fattezze: la vita si assottigliava, mentre il petto sembrava quasi esplodere dagli abiti, sottomettendosi all’ideale estetico imperante.
Al busto, dunque, era solitamente associata una sottogonna, il verdugale o guardinfante, che donava alla sottana una forma conica o cilindrica. I modelli in ferro sparirono presto, a causa della scomodità, sostituiti da stecche di balena o di vimini, infilate direttamente in una base di tessuto, oppure come elemento intrinseco della veste.
A metà del Seicento, per valorizzare la scollatura, si pensò di utilizzare seta o raso, guarniti da merletti, modellati per sostenere il seno. Non più indumento intimo, quindi, l’accessorio si rese parte integrante dell’abito, scostato dalla sottana, generalmente con un’allacciatura, atta a mettere in risalto la pettorina. Fu solo più tardi che gli si preferì la forma ad imbuto, irrigidito ai lati da stecche metalliche.
Nel Settecento, attillatissimo in vita, venne associato al panier, sorta di cesto ovale largo e stretto che, pensate, costringeva colei che lo indossava a passare trasversalmente dalle porte, camminando a ritroso, proprio come i gamberi.
Un trentennio di eclisse, determinato dall’introduzione delle idee Illuministe, dopodiché si ritornò ai vecchi fasti, antecedenti alla Rivoluzione Francese.
Attorno al 1830 ricomparve, per riscuotere il proprio credito e resistere pure per buona parte del Novecento. Si riteneva, infatti, in maniera totalmente aleatoria, che l’indumento fosse necessario, per sorreggere la colonna vertebrale della donna, per sua natura più fragile dell’uomo.
E se, per tutto l’800, si perseguì l’obiettivo del vitino di vespa, non oltre i 40 centimetri di circonferenza, sul finire del secolo l’esigenza si sviluppò ulteriormente, andando a coinvolgere – causa la diversa foggia degli abiti – anche parte dei fianchi.
Il profilo ad S spingeva il petto in alto, inarcando indietro le reni. Sottolineiamo, od ogni corsetto il proprio abito di riferimento. Pertanto, nel guardaroba, non ne lesinavano gli esemplari, arredati di trine, nastri e tessuti pregiati. E – vale la pena ricordarlo – si pretendeva un diverso cambio, a scansionare i diversi momenti della giornata: da casa, da giardino, da visita, da carrozza, da passeggiata, da viaggio e così via.
Agli albori del ‘900, poi, fu Coco Chanel, coadiuvata dal celebre sarto Paul Poiret, a sdoganare un tipo di moda scevro da condizionamenti. Il jersey, fino ad allora adoperato solo per l’intimo, venne introdotto come materiale base per i capi da indossare nelle ore anche diurne e si passò, in breve, ad un altro racconto della femminilità.
Oggi, nell’era – vorremmo augurarcelo – post Corona Virus – si ritorna a saggiare il dolore, assai sofisticato – perché tanto assomiglia al diletto – nell’auto costringerci – che un distillato di sana perversione ci appartiene – nuovamente nel Bustier. Che, in fondo, non sappiamo proprio rinunciarci.
Ci accompagna da sempre. Ci tortura e, insieme, ci seduce, introducendoci in un immaginifico in cui siamo donzelle inseguite da un Cavaliere misterioso. Siamo Silfidi, leggere dee del vento e dei boschi, eternamente evanescenti – che così adoriamo immaginarci – imprendibili, inafferrabili, desiderabili, come nessuna.
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