Mezcal… quel distillato dal fascino torbido
Un antico detto messicano, così recita: Para todo mal, Mezcal. Y para todo bien, tambié. Y si no hay remedio, litro y medio. Come a voler significare: Mezcal, soluzione per ogni occasione. Che poi, si tratti, pure, di Mescal, secondo la pronuncia inglese, l’etimologia rimane sempre quella. Agave cotta, per l’appunto, anche se, tradizionalmente, da queste parti, qualsiasi distillato a base della pianta viene considerato tale. Del resto, basti sapere che oltre il 70% del prodotto in analisi deriva dallo stato di Oaxaca e, da qui, viene commercializzato in tutto il mondo.
Un distillato, talmente raffinato, da venire non solo sponsorizzato, ma addirittura lavorato da chi, famoso, è disposto a metterci pure la faccia. Così, ad esempio, per Luis Gerardo Méndez popolare attore messicano, noto anche per il suo particolare rito scaramantico: bere – cioè – uno shot di Mezcal, prima di salire sul palco. Non solo. Il ‘nostro‘ ha finito per lanciare, al riguardo, un personale Brand. “L’ho chiamato Occhio della Tigre perché, per me, è come un portafortuna“.
Per entrare nel dettaglio…
…oggi, sul territorio, si contano circa 330 mila ettari coperti da agavi, da cui più o meno 9 mila produttori ottengono 6 milioni di litri di liquore, ogni anno. Pianta sacra per gli Atzechi, leggenda vuole che un fulmine ne colpisse un’esemplare, cuocendone il cuore. Da allora, se ne valuta il suo estratto come una sorta di nettare divino. Riconosciuta, nel 1994, a livello internazionale, non – tuttavia – senza polemiche, la bevanda si ricava, dunque, dal cuore, espadin o piña. Si tiene a riposare per un mese e, a sua volta viene lasciata maturare, per un periodo che si prolunga dai due mesi, fino ai sette anni. In sostanza, più passa il tempo e più il colore diventa scuro. A seconda dell’invecchiamento, assume, poi, il nome di Blanco, Reposado o Añejo.
Soggetto pure alla fabbricazione clandestina, a partire dalla costa, il Mezcal si diffuse segretamente ma a macchia di leopardo. Ricetta, che giunse fin sopra gli altopiani impervi di Jalisco, subendo una sorta di mutazione, grazie all’utilizzo di agave blu. E, giacché l’idea nacque a Tequila, a 65 km da Guadalajara, dove la terra arida e vulcanica favorisce la speciale cultivar, si pensò di battezzare il risultato proprio con l’appellativo di provenienza.
Dal gusto particolarmente, è – in sintesi – oggi Patrimonio Mondiale dell’Umanità UNESCO.
Peraltro, anche le ricette sono differenti. Anche la Tequila può essere Blanca, Reposada o Añeja, ma la distinzione geografica rimane forte. Così, se il primo richiede, nella composizione, il 100% d’agave; per l’altra, ci si accontenta di un ‘modesto’ 51%. Il resto? Zucchero o altri ingredienti, comprese larve d’insetto, per un gusto distinto.
L’una si fa notare per le note dolci derivanti dalla distillazione, il suo competitor sa, differentemente, d’affumicatura, perché è nei forni a legna sotterranei, in regime di clandestinità, che viene, da sempre, cotto. D’altronde, sarà pure stato registrato il 19 marzo 1985, ma respira appieno del passato. Non per nulla, mentre il resto del mondo lo adopera nei cocktail, nel Paese d’origine si beve, senza fraintendimenti, liscio.
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