La Scala ritorna al dress code

La Scala ritorna al dress code

Non è che per forza…‘, o forse sì; probabilmente sarebbe il caso… per una questione di decoro, di rispetto, di buon senso. Ordine, che si connota anche come ‘ordine mentale’. Rigore, che è anche invito all’ascolto e dimensione del valore dell’esperienza che si sta affrontando.

Potremmo dissertare per ore, riguardo ai motivi che hanno condotto i sovrintendenti del Teatro La Scala di Milano a far tornare in vigore il dress code. Fatto sta, conviene far presente che, in fin dei conti, di notifiche ufficiali rispetto ad eventuali modifiche o cambiamenti non ce ne erano state. Vale a dire che, negli ultimi anni, non era mai stata cancellata nessuna norma. Semplicemente, quelle vigenti venivano ignorate.

Certo, non stiamo riferendoci a regole draconiane; liberi, i presenti, di non presentarsi con indosso la cravatta o l’abito da sera. Rimanevano, tuttavia, in auge una serie di indicazioni ‘minime’ – e badate bene, lo sottolineiamo, minime – in elenco persino nei cartelli sistemati all’ingresso e in biglietteria. Riassunto: niente canotte, niente pantaloncini corti e neppure infradito.

Attenzioni, cortesie – potremmo definirle, pure – fatte comunque rispettare dalle maschere, con una certa dose di buon senso, ma con l’avvertimento, insieme, che ‘chi non entra non si vedrà rimborsare il biglietto’. Specifichiamo: il divieto di canotta non impedisce alle signore di presentarsi in blusa o di indossare abiti smanicati; quello per le infradito non lascia fuori – ci mancherebbe! – le spettatrici giapponesi, con tanto di kimono e calzature tradizionali. Nulla di tutto questo.

Consultando il Sito, si legge: “La Direzione invita il pubblico a scegliere un abbigliamento consono al decoro del Teatro, nel rispetto del Teatro stesso e degli altri spettatori. Non sono ammessi all’interno del Teatro spettatori che indossino canottiere o pantaloni corti; in questo caso i biglietti non sono rimborsabili“. Il punto è, però, un altro.

“Mi importa che i giovani vengano, non come sono vestiti“. Parole, queste, del sovrintendente uscente Dominique Meyerdetto. Lo stesso che, a suo tempo, si era adoperato per una ‘politica’ di tolleranza. Primo, in gioventù, del resto, a venire redarguito per i suoi look, evidentemente poco ortodossi.

Solamente che il problema, ad oggi, non sono più i giovani o non sono ‘solo’ loro. Spesso, anzi, sono proprio le persone di una certa età a varcare la soglia del Teatro con mise improponibili, dato il contesto. Outfit da turisti, adatti – magari – ad una gita fuori porta ma che poco – o nulla – attengono all’ortodossia che le circostanze richiedono.

La questione, a dirla tutta, comprende un aspetto assai più generale, che riguarda i comportamenti da tenere. Il cibo, ad esempio, o le bevande, che non possono essere introdotti dall’esterno. Senza contare tutto il discorso relativo alla tecnologia. Con l’avvento degli smartphone sono arrivati gli appelli, di sovente inascoltati, a non fare video e/o foto durante le diverse rappresentazioni. C’è, addirittura, chi si è trovato costretto a redarguire chi li appoggiava alle balaustre, dopo che un apparecchio caduto dai palchi ha colpito uno spettatore in platea, già pronto alla denuncia.

Sono abitudini, specchio dei tempi e, di per sé, innocue, ma sovraintendono a tutta una serie di altre riflessioni. Un tempo, per andare da qualche parte ci si preparava. Suonava come un’occasione speciale persino uscire per un Cinema, coscienti – appunto – del significato che poteva assumere, sia pur minimale, l’evento. Sapeva di buono, riassumeva la soddisfazione di essersi guadagnati una determinata possibilità e, soprattutto, lo si apprezzava. Ci si dava credito, per darlo alla circostanza e viceversa. Oggi no. Siamo talmente poco avvezzi alla diversificazione che snobbiamo le liturgie, quasi fossero ostacoli e ci suonano a mo’ di divieti. Insopportabili.

Per semplificare, abbiamo smesso di raccontarci la fiaba del ‘Sabato del villaggio’, di sponsorizzare il tempo dell’attesa e, immersi in un’eterna domenica, tutto ci appare lecito; tutto è possibile.

Tutto – ancor peggio – è scontato e lo diventiamo anche noi, che davanti allo specchio non mostriamo neanche più la voglia di rimanere stupiti dalla nostra immagine, né coltiviamo l’ambizione di vederci con occhi nuovi, disarmatamente orfani della cura di quel che siamo e di quel che ci circonda.

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