Le tre vite di Pietro Maso. Storia del ragazzo che giustiziò mamma e papà

Le tre vite di Pietro Maso. Storia del ragazzo che giustiziò mamma e papà

Il “Mostro di Montecchia“, così lo abbiamo conosciuto, quel lontano aprile del 1991.

Aveva 18 anni, allora, Pietro Maso. Figlio viziato e annoiato di una famiglia benestante, nei pressi di Verona. Terzogenito, dopo Nadia e Laura, di Antonio Maso e Rosa Tessari.

E’ ambientata in provincia la storia che vede protagonista il giovane che, per entrare in possesso dell’eredità, ha trucidato i propri genitori, con la complicità di tre amici (Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato). In una notte come tante, era il 17 aprile – Pietro ha straziato, ripetutamente, incessantemente, senza pietà – chi lo aveva messo al mondo e cresciuto, accudito. Per anni.

Ma il ‘brutto’ di questa vicenda – permettete la licenza poetica – non si disegna nella narrazione dei fatti, di per sé terribili. Bensì nella lucida freddezza che ha arredato e stretto – come in una morsa – tutti gli eventi. Astenia da sentimenti. Intraducibile nell’animo di chi, ignaro lettore, comunemente prova, sente, percepisce… rabbrividendo di fronte a tanto orrore.

47 anni, oggi, quelli di Pietro Maso. Che abita in Andalusia. Lavora come cameriere, e vorrebbe essere dimenticato. Un oblio, supportato dai 22 anni di prigione (30 era la condanna, con il riconoscimento di seminfermità mentale al momento dei fatti). E’ libero – l’ex ragazzo con la passione per Don Johson – per via dell’indulto e di 1800 giorni di scarcerazione anticipata. Dal 2015, dopo anche un ricovero in clinica psichiatrica, è fuori.

Il suo legale ha fatto sapere che, ora, vorrebbe ricominciare da capo, senza essere perseguitato dai fantasmi delle sue colpe.

Il delitto di Montecchia di Crosara

Un omicidio in stile ‘Arancia Meccanica‘, roba da far rabbrividire lo stesso Kubrick.

Sono in piedi accanto ai loro corpi. Morti. Una linfa gelata mi è entrata dentro, nelle vene, nelle ossa, nel cervello“, racconta, in prima persona, nel libro – Il male ero io – edito da Mondadori. E prosegue: “Vado in bagno. Devo lavarmi. Apro a manetta l’acqua calda, tengo la testa bassa. Fisso le macchie sul dorso delle mani. È sangue. È il sangue di mio padre. È il sangue di mia madre. Ci è schizzato sopra, sulle dita.” 

Pietro Maso, in mezzo ai suoi complici

Un incubo, perpetrato a più riprese. I precedenti tentativi erano falliti. Ma, peggio ancora, motivato dal nulla. Dal timore di essere scoperto. Di essere allontanato – forse? – da una vita illusoria, edificata sull’effimero. Era questo il ragazzo che, in discoteca, si accendeva le sigarette con le banconote. Faceva figo.

E la vanità ha finito per tradursi nel più primordiale degli istinti. Sopravvivere. A fronte di tutto. A qualsiasi prezzo.

Chi avrebbe potuto immaginare quello che sarebbe accaduto – spiega – l’omicidio, il carcere. Di lì a poco non avrei avuto neppure un paio di slip per cambiarmi. Per anni ho avuto addosso solo i vestiti unti e consumati, che qualche detenuto mi lasciava per pietà.” Uno stravolgimento, non abbastanza potente se, dopo essere tornato in libertà, Maso era finito di nuovo nei guai, per una telefonata dai tratti minatori, rivolta alle sorelle. Qui annunciava di voler terminare “…quello che dovevo finire nel 1991… Faccio il lavoro che so fare meglio e poi mi ammazzo”, annunciava.

Il pentimento e l’avvicinamento alla religione

Una seconda esistenza, quella in carcere – per la precisione quello di Opera – in cui Pietro si è distinto per aver lavorato negli uffici del Provveditorato regionale, dove faceva le pulizie. Il tempo per riflettere. Per maturare la redenzione. “Non sono solo un mostro. Io che sono stato schiavo per tutta la vita di cose inutili: soldi, donne, gioco, discoteche… non voglio più essere schiavo di nulla.” Per avvicinarsi ad una dimensione di sé, in cui ha trovato spazio persino l’amore, e il matrimonio.

Poi, più di recente, l’intervista rilasciata a Maurizio Costanzo, in cui dichiara: “Non ho capito che stavo uccidendo i miei genitori“, scatenando – inevitabile – una ridda di polemiche; e la lettera, inviata ad un altro uomo, altrettanto perduto: Manuel Foffo (tra i responsabili della morte del giovane Luca Varani).

La nuova vita di Pietro Maso

Oggi, quello stesso uomo “…ha pagato il suo conto con la Giustizia e continua a confrontarsi, giorno dopo giorno, con la colpa terribile che si porta dentro“. Risiede nella costa meridionale della Spagna, dove fa il cameriere, nell’attesa di essere rimosso dalla memoria di chiunque.

Il suo avvocato, Marco De Giorgio, parla a Il Corriere del Veneto di una persona decisamente cambiata: “L’ho sentito una decina di giorni fa, al telefono. Ora è definitivamente disintossicato dalla cocaina ed è finalmente sereno”.

Pietro Maso esiliato – o meglio sarebbe dire rifugiato – in un posto in cui nessuno possa vedere le sue ombre. “Ha fatto diversi lavoretti. Attualmente fa il cameriere nei locali della zona. Lì, nessuno conosce il suo passato e può finalmente liberarsi dalla pressione, anche mediatica, che l’ha sempre perseguitato in Italia”.

Chiede solo di essere dimenticato”, auspica l’avvocato.

Lui sì, ma non il suo crimine. Ci auguriamo tutti noi.

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