Epifania di un mostro convinto di farla franca
“Non grida, non urla, non piange. Risponde alle chiamate mentre lui l’aggredisce, senza insospettire il centralinista“. La sentenza parlava chiaro. Dunque, perché mai il racconto della donna avrebbe dovuto ritenersi credibile? E in primo grado di giudizio era andata proprio così, con il Lui in questione, un istruttore della Croce Rossa, assolto. L’accusa, badate bene, era di violenza sessuale su una collega, all’epoca lavoratrice interinale, presso un ospedale di Torino. Il tutto, si svolgeva tra il 2010 e il 2011, con buona pace del Tribunale che, nel 2017, aveva persino disposto il rinvio degli atti alla Procura, dando indicazione di procedere per calunnia contro la vittima.
I FATTI
Il processo d’Appello si era chiuso, diversamente, con un non luogo a procedere, nonostante la Corte avesse reiteratamente messo in luce le fragilità della donna. Imputato, in ogni caso, scagionato, a causa di un cavillo tecnico giuridico. La querela, cioè, era stata presentata in maniera intempestiva.
Una volta al vaglio della Cassazione, la sentenza era stata annullata, disponendo un nuovo processo d’Appello. Si intendeva, in seconda analisi, indagare sul rapporto gerarchico che esisteva tra la vittima e l’uomo. Ne era emerso che il Lui in questione esercitava, allora, la mansione di coordinatore dei volontari e, come tale, ne poteva gestire i turni. Un “pegno – da parte di Lei – per poter continuare a lavorare“, si era, quindi, giustificato. “…ed evitare turni in posti meno spiacevoli rispetto agli ospedali come, ad esempio, il Centro identificazione ed espulsione degli immigrati”. Quasi a certificare che, così meticolose attenzioni, richiedessero un’inevitabile ‘tassazione’. E lo scotto era stato verificato attraverso l’ascolto, a ritroso, di decine e decine di messaggi, estrapolati dal telefono dell’ipotetico reo. Fatto sta, a quel punto ne è emerso lo spirito, fortemente e distintamente prevaricatore.
Crollata, invece, la tesi della difesa, secondo cui non vi era alcuna possibilità, di influire sul rinnovo dei contratti. E, di fronte alla proposta di risarcimento, per una cifra di 10mila euro, “Ho rifiutato – ha raccontato la donna – perché i soldi non mi sono mai interessati. Volevo solo avere giustizia. Tante volte ho pensato di arrendermi. Se non l’ho fatto è stato per mia figlia“.
L’EPILOGO
Un grazie, in particolare, è stato riservato, da parte dei legali, nei confronti del Procuratore Generale e della Polizia Giudiziaria: “Ci hanno creduto fino in fondo“. Poi, l’appello a tutte le donne: “Sono passati 10 anni, è vero. E ad un certo punto sembrava persino che sotto processo ci fossimo noi. Ma il messaggio è: crederci e crederci sempre…. non bisogna mai abbandonare la fiducia e la speranza“.
Nomi, cognomi, specificità, al riguardo, sono irrisori. Questo è un caso come ce ne sono tanti e, purtroppo, si ripetono di sovente. Troppo spesso. E’ il quadro di una Società saccente, che crede di stare avanti e invece rimane arretrata, vincolata a stereotipi obsoleti e che, ormai non convincono più. Ripropone la fotografia di quel che non vorremmo mia più vedere. Traccia il ritratto di sepolcri imbiancati, malcelati dietro le trame della burocrazia. Rappresenta quel che, pur se reduce da un lieto fine, desidereremmo – davvero e per sempre – dimenticare.
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