La scuola cattolica: quella storia di ieri che sanguina ancora oggi

La scuola cattolica: quella storia di ieri che sanguina ancora oggi

Venezia 2021 e respiri già l’aria di Festival. I nomi scorrono, uno via l’altro ed è la volta, non meno di ieri, di: La scuola Cattolica, di Stefano Mordini.

Il film, resuming delle 1300 pagine scritte da Edoardo Albinati, ricompone passo passo la cornice intorno alle vicende, ormai tristemente note, che interessarono i protagonisti del delitto del Circeo. Ragazzi, bravi ragazzi – tanto per citare il titolo di un celebre film – che frequentavano scuole religiose. La faccia pulita, integerrima, della borghesia romana e quel quotidiano, celato subito dietro. Polvere e marciume, accuratamente accatastati sotto il tappeto imbellettato di case bene, di famiglie ‘normali’.

La pellicola è fuori concorso, ma desta di certo curiosità il fatto che l’autore del romanzo sia stato, a sua volta, compagno di scuola dei tre giovani che, nel 1975, violentarono, massacrandole, Rosaria Lopez e Donatella Colasanti (l’unica a salvarsi, essendosi finta morta). Eppure, nel girato, così come scorrendo le righe del libro, tutto questo: l’insensatezza, la crudeltà, l’orrore arrivano solo dopo. In seguito ad una lunga premessa, di cui la cronaca – nera – è unicamente conseguenza.

Raccontare i preliminari di un delitto è, difatti, assai più illuminante che soffermarsi ad indugiare sul male in sé. Sui gesti di morbosa depravazione e sulla psicologia di chi li compie. E’ un ritratto onesto di ciò che accadde, suggerisce la critica. Non provocatorio né, tantomeno, retorico. Un’anamnesi, scena dopo scena, frammento dopo frammento, che dal particolare si apre a contenuti più universali. L’analisi, cioè, di un intendere tutto maschile della sessualità. Il rapporto, tossico, con un’educazione che, qualora esista, di sentimentale conserva poco, o nulla.

La gioventù qui ritratta subisce, in seno, la violenza di un vivere sempre uguale a se stesso. Talmente prevedibile da risultare scontato e, anzi, necessario. Davanti, a metterci la faccia, l’effige di nuclei altolocati e quei blasonati valori cristiani che chiedevano – chiedono? – di nascondere, occultare, non dire. Mai.

Del resto, tutto si compra, a cominciare dal silenzio.

Al di là del cast, nutritissimo. Si va da Riccardo Scamarcio a Valentina Cervi; da Valeria Golino a Fabrizio Gifuni. E, poi, ancora, tanti volti freschi, come quello di Benedetta Porcaroli, qui si tratta di sollevare il tema, profondo, dell’equivoco. Maschio come soggetto dominante. E la carneficina assume immediatamente le sembianze – e l’alibi – di un cameratismo amicale. Eccola, la panacea di tutti i mali, per chi non ha altra solidità se non quella economica. E il branco, ieri come oggi, rimane intatto. Impunito.

Nascere maschi è una malattia incurabile” si recita, come se l’attitudine a divorare l’altro fosse una questione di specie. Sottomessa la preda, il cacciatore si esalta. E tutto ciò nasce, quasi per indotto suggerimento, dall’obnubilamento di una lunga serie di insicurezze, in cui il senso di solitudine e l’inadeguatezza se la governano. L’ambiguità morale non chiede perdono, non domanda comprensione, né pretende soluzione. Qui i criminali sono ostaggi di se stessi, vittime, a loro volta, di una raffigurazione di perbenismo ipocrita dove tutto è concesso, purché non si veda. Purché – meglio – non lo si sappia in giro.

E, in questo quadro esistenziale, sfila di tutto: madri indolenti, vanitose, false nei confronti della loro stessa coscienza. Ingenuamente convinte che, in fondo, vada bene così. Responsabili, tuttavia, dei gesti attuati dalla propria carne.

Responsabilità condivisa? Forse. Di fatto non c’è giudizio. Non esiste condanna, di fronte ad una fragilità che avvolge adulti e ragazzi, casa e scuola.

In chiusura, si ricorda che, oggi, lo stupro si connota come reato contro la persona e non solo contro la morale pubblica. Poi, i titoli di coda. E ci viene da pensare che la parola fine, in questo caso, avremmo piacere di mettercela anche noi.

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