Birra: una storia targata tutta al femminile
Un ‘gigante’, danese o irlandese, con tanto di chioma rossastra e parannanza indosso? Oppure un frate, magari trappista? Uno di quelli che vivono rifugiati nei loro monasteri, con l’inseparabile cappuccio marrone tirato sulla testa?
Ebbene, se si tratta di lavorazione del luppolo e produzione di birra, contro ogni prevedibile stereotipo, dovremmo allontanare dalla mente l’immagine di un omaccione, alle prese con il malto e i suoi aromi, profumi, declinazioni… per lasciar spazio, invece, come storia pretende, ad un mondo targato al femminile.
Pare, infatti che sia stata proprio una donna ad inventare la birra. Non solo. Probabilmente, l’idea che la vede, da sempre, legata ai raccolti e alla fertilità della terra, mette la bevanda in stretta connessione con le divinità femminili, in molti casi, simbolo di abbondanza.
Partiamo da principio…
Per rintracciare le radici di questo rinomato prodotto occorre effettuare un viaggio a ritroso e risalire almeno a 5 millenni fa, unica maniera per scovare i primi segnali di ricette, pervenute alla realtà odierna. Dunque, la nascita della birra si riconduce proprio a una donna Sumera, un’abitante dell’antica Mesopotamia che, in modo inconsapevole, diede vita ad un preparato straordinario.
Tra i numerosi racconti che ne riguardano le origini, fissate ora in Mesopotamia, ora in Egitto, quello più attendibile ne vuole la nascita nel bel mezzo dei campi, situati fra il Tigri e l’Eufrate. Leggenda narra – entrando nel dettaglio – che, appunto, una fervente religiosa riempisse una ciotola d’orzo, per offrirla in dono agli dei. E, se dapprima, quest’ultima, si colmasse – pure – di pioggia, in un secondo momento, sotto al sole battente, pare che il cereale iniziasse a fermentare, preludio per un inedito drink, gassato e moderatamente alcolico…. che, di lì a poco, venne consacrato.
A proteggerlo, la dea della fertilità Ninkasi, nome che, letteralmente, sta a significare: “signora che prepara la birra“. Vero o meno, fatto sta che i Sumeri, già 6 millenni fa, fossero alle prese con la lavorazione, ad esclusiva incombenza femminile.
Tracce “scritte” della birra sono state rinvenute, più in là, anche nel celebre Codice di Hammurabi (1700 circa a.C.). Nell’immensa raccolta di leggi del mondo babilonese – figuratevi – si prevedeva la pena di morte, per quante fossero state sorprese ad annacquare la bevanda, oppure a venderla, senza specifica autorizzazione.
Certo, parliamo, ancora, di ingredienti limitati. Una una serie di cereali (farro e orzo su tutti) bolliti in acqua calda, in cui venivano lasciati fermentare con l’aggiunta di erbe aromatiche, per diversificarne gusto e aroma.
Solo attorno nel 1100, in pieno Medioevo, si perfezionarono le tecniche di produzione, con l’introduzione del luppolo, grazie… ad una monaca tedesca.
Ma torniamo a noi…
Consumata quotidianamente e diffusa anche tra i ceti popolari, nell’antico Egitto divenne, ben presto, parte integrante della società. Ritrovamenti archeologici attestano come si usasse prepararla già almeno 4000 anni fa, sotto il nome di zithum, triturato di chicchi di cereali, macinati appena prima della fermentazione, che avveniva in anfore di argilla.
Largamente consumata nel quotidiano, lo era ancor di più, in facoltà di occasioni religiose, specialmente durante le feste in onore della dea Tefnut. Un ditillato, in cui aggiungere miele, volendo, o, in alternativa, da allungare con acqua e somministrare ai bambini in fase di svezzamento o bevuto dalle donne, per favorire l’allattamento.
Ora come allora…
Dedicato alla divinità femminile Hathor era, inoltre, il Festival di Tekh, parimenti noto come Festival dell’Ubriachezza (2000-1700 a.C), sorta di Oktoberfest ante litteram.
Addirittura, se nella vita terrena era di rigore, non doveva mancare neppure nell’aldilà, auspicio per nuovi brindisi nel Regno dei morti, in compagnia dei propri antenati e in attesa di ulteriori compagni di bevute, eterne e ultraterrene.
Procedendo nei secoli…
…anche la Roma Antica la vede protagonista, arruolata – pur tuttavia – soprattutto nell’universo della cosmetica. Pare, infatti, che la sostanza venisse usata per la realizzazione di unguenti e creme di bellezza, motivo per cui venne bollata dagli uomini come scelta di serie b.
A testimoniarlo, persino gli scritti di Plinio il Vecchio (I secolo d.C.), il quale la esalta come particolarmente in voga nelle province romane (penisola iberica, Francia, Germania ed Egitto, su tutte); mentre in patria pare fosse rinnegata. Tacito, non di meno, ne descrive il sapore, grossolano e sgradevole, definendola un vino d’orzo di pessima qualità.
Fu merito di Cleopatra (ancora in questo caso, una donna) se, dall’Egitto, si prese ad esportarla più accanitamente, favorendone la diffusione in molti Paesi del Mediterraneo, a partire dal I secolo a.C.
Dapprima sorseggiata ‘solo’ presso i quartieri malfamati (non ultima, la Suburra), man mano, se ne arricchirono anche i banchetti aristocratici. E il legame con la sfera religiosa si rinnovò pure nell’Urbe. La birra venne consacrata alla dea Cerere, dalla quale assunse, poi il nome di cervisia.
La sagacia di una suora…
Tuttavia a Roma, come pure nelle province limitrofe, le tecniche di produzione erano ancora piuttosto limitate. Arcaiche e ben lontane da quelle che conosciamo oggi. Orzo e farro erano i cereali più utilizzati, con l’aggiunta di spezie, fin quando, attorno al 1100, una monaca tedesca, tale Hildegard von Bingen dell’Abbazia di St. Rupert, in Germania, grazie a una serie di studi sul luppolo, comprese come la pianta potesse rivoluzionare il mondo brassicolo. L’educazione da erborista e naturalista le fecero intuire che: “… grazie alla sua amarezza, blocca la putrefazione di certe bevande alle quali lo si aggiunge, al punto che possano conservarsi molto più a lungo“. Insomma, un prezioso e potente conservante naturale, il cui utilizzo si diffuse tra Germania e Olanda, Paesi che, in breve, ne diventarono il quartier generale.
In tempi più recenti…
…è curioso constatare come, in Inghilterra, tra 1700 e 1800, l’80% delle licenze per la produzione di birra fosse in mano alle donne. Le quali, però, per ottenerle, necessitavano dell’appoggio di un uomo. È con l’industrializzazione, progressivamente, che il mondo maschile assunse il controllo del settore. Attualmente, per fare due conti, è ad appannaggio femminile circa l’11% dell’impresa brassicola, anche se il trend si sta confermando in costante crescita.
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