Madame de Polignac: la donna della Regina

Madame de Polignac: la donna della Regina

Quello specifico evento aveva richiesto settimane di preparazione. Sapete quegli appuntamenti a cui non è concesso rinunciare?

Era più che un’occasione. Era… l’occasione. Tutta la nobiltà riunita. I cortigiani, lì, a sfoggiare quanto di più sfarzoso possedessero. Le dame, ad esibire gioielli di inestimabile valore… Immaginate la trepidazione nel mio cuore.

Avrebbe presenziato anche il Re, magari intrattenendosi con i suoi amici più fidati; mentre la Regina, graziosamente, avrebbe riservato un saluto ai suoi ospiti. Annoiata, in verità, nel momento della riverenza al suo passaggio; eppure compassata. Perfettamente compresa nel proprio ruolo.

Mi accingevo, esattamente con questi pensieri, all’accadimento che avrebbe condizionato la restante parte della mia esistenza. Una vocina mi parlava, all’interno, sussurrandomi che sì, che era quello il momento. E così fu.

Quando Lei mi guardò, quanto era attorno svanì. Non c’era niente, se non le nostre due figure, distanti quel tanto che bastava per distinguerci separate e per quel che richiedeva l’etichetta. Il suo sguardo si era poggiato, curioso, su di me. “Madame de Polignac, mi hanno parlato molto di voi… siete incantevole, stasera!“. La mano affusolata, intanto, afferrava la mia, che mi arrendevo, nel giro di poco, alla stretta. “Maestà!“, fu l’unica parola che riuscii a pronunziare.

Può, in questo modo, iniziare una storia d’Amore? A dirvi il vero, sono convinta di sì, poiché la nostra amicizia fu, a tutti gli affetti, una forma d’amore. Costellata da dubbi, perplessità, passione… e poi la fiducia, reciproca e i legittimi smarrimenti, il sospetto… e quel rapporto immarcescibile, a fare da tappeto ad un vissuto che sarebbe durato, anche al di là dei reciproci giorni. Nel tempo, definirono la nostra relazione ‘controversa’. Dal nostro personale punto di vista era, invece, tutto talmente limpido…

Scusate, mi spiego meglio e, per aiutarmi, partirò dal principio. Mi chiamo Yolande Martine Gabrielle de Polastron e sono nata l’8 di settembre del 1749, nella città di Parigi. Provenivo da una famiglia di antico lignaggio. Non eravamo ricchi, no, ma ciò non tolse comunque dignità alla mia infanzia. Certo, crebbi priva di una madre. La mia scomparse che avevo solo tre anni. Per questo, fui affidata alle cure della contessa d’Andlau, sua parente, che si adoperò affinché ricevessi un’eccellente istruzione presso il convento di Panthemon. Rimasi lì, praticamente fino alle nozze con Jules François Armand, conte de Polignac, marchese di Mancini, il 7 luglio 1767. Lui era il rampollo di una famiglia illustre, decaduta.

Eppure, fatalità, quello che doveva essere il risultato di un’unione combinata si rivelò, a dispetto di tutto, un successo. Un matrimonio sereno, coronato dalla nascita di ben quattro figli. Che orgoglio… Jules, nel 1829, sarebbe addirittura stato eletto primo ministro di Francia.

Vivevamo appartati. Non ambivamo, se non a ciò che avevamo già, almeno finché mia cognata, Diane, entrò a far parte del seguito della contessa d’Artois. Non so esattamente dirvi cosa colpì la Regina, quando mi vide. Probabilmente i miei modi pacati, la schiettezza o l’eleganza; riconosciuta da tutti, del resto. Fu così che mi trasferii a Versailles.

Voi non avete idea – come potreste? – del dispendio economico. Un tenore di vita del genere comporta soldi, tanti e l’adeguamento a tutta una serie di rigidi cerimoniali. È impensabile vivere a Palazzo, senza un abbigliamento adeguato, una servitù all’altezza… Ero imbarazzata. Ringraziai e declinai l’invito. Maria Antonietta, però, si dimostrò determinata. Mi trattenne come sua dama di compagnia. Avrebbe trovato Lei una soluzione, mi assicurò ed io le credetti.

Così, dopo aver saldati tutti i miei debiti, mi fece trasferire a Corte, negli appartamenti che, un tempo, erano appartenuti a Madame de Maintenon. Erano vicinissimi ai suoi.

In breve, divenimmo compagne inseparabili. Ero la sua confidente; di più, una sorta di sorella maggiore. A legarci, 14 anni tra i più turbolenti della storia di Francia ma loro, i membri della Famiglia Reale, mi volevano bene e mi stimavano. Luigi e persino suo fratello, il Conte d’Artois, che rimase mio fedele alleato.

A conquistare tutti – non dovrei essere io a riferirlo, ma tant’è – un carattere evidentemente amabile, equilibrato; e, quel che più conta, la spontaneità che spesso, tutt’attorno, mancava. Mi raccontavano, allora, con testuali parole: dotata di un personalità brillante. La risata argentina e l’arguzia devono, poi, aver fatto il resto.

Vi starete di certo chiedendo se fossi stata bella. Giudicate da soli. Colma di ammirazione – lo ammetto – Diane raccontava di me: “Occhi azzurri colmi di espressione, una fronte alta, un naso un po’ all’aria senza essere rivolto all’insù, una bocca affascinante; dei bei denti, piccoli, bianchi e perfettamente allineati, formavano il suo piacevole viso. Il suo sguardo aveva qualcosa di celeste, il suo sorriso pieno di grazia, la dolcezza e la modestia si diffondevano in ogni suo tratto; dei bellissimi capelli bruni ornavano questo volto, insieme bello e grazioso“. E’ lusinghiero essere interpretati così… e allora contava. Già, contava anche questo.

Valeva, ad esempio, per gli enormi benefici a cui conduceva: titoli e incarichi, estremamente redditizi. Il 7 maggio 1778 Diane divenne prima dama d’onore di Madame Elizabeth, la sorella di Luigi XVI. L’8 agosto 1779 il cugino di mio marito assunse la carica di vescovo di Meaux. Nello stesso anno, mia figlia ricevette come dote, dal Sovrano, una somma spropositata e un anno dopo, ancora giovanissima, era sposata con uno tra i migliori partiti in circolazione. Jule divenne duca ereditario ed io, per tutti, la duchesse.

Tra il 1775 e l’80 ero, senza ombra di dubbio, la nobildonna più potente dell’esclusivo entourage di Corte. Filtravo la lista degli ammessi alla ‘real presenza’; intercedevo, a favore dei conoscenti… avrei potuto chiedere tutto e, comunque, tutto mi venne concesso, sotto lo sguardo invidioso di chi mal celava disprezzo nei miei confronti.

Nemmeno Madame de Maintenon, nemmeno la Pompadour, costano quanto questa favorita, questo angelo, con gli occhi bassi; la modesta e gentile Polignac“, si scriveva a mio carico.

La situazione iniziò a precipitate nel momento del mio massimo splendore, nel 1782, quando fui nominata Governante dei figli di Francia. Mi occupavo degli eredi del Re. Ciò, presumeva un appartamento di tredici stanze, a Palazzo. Un alloggio, a dire il vero, dalle dimensioni senza precedenti. Ero un’educatrice intraprendente. Decidevo, anche senza consultare Maria Antonietta. Semplicemente, ero sicura di me.

Ah, questo faceva montare su tutte le furie i nobili, gelosi e scandalizzati… e il popolo, che mi associava all’Austriaca che li continuava a vessare e a privare dei diritti fondamentali e del pane, a favore – è il caso di dirlo – mio.

Presero, pertanto, a pubblicare volantini che ci vedevano ritratte, assieme, in pose oscene. Ci calunniavano, sostenendo che intrattenevamo una relazione di natura sessuale, che la Regina era soggiogata, corrotta, proposizione intollerabile per poter comandare. La soprannominarono l’Autrichienne, la cagna. La dipinsero come una licenziosa ninfomane, dall’insaziabile appetito.

Di me si diceva, pure, che fossi l’amante del conte di Vaudreuil, sospettato di essere il padre del mio ultimo genito. Sorrido, se ci ripenso, poiché anche la Regina nutriva, nei suoi confronti, una profonda avversione…

Come spesso accade, anche la mia stella prese a tramontare. L’attenzione di Maria Antonietta si rivolse altrove e l’insofferenza che si respirava a Corte mi convinse a partire. Mi recai in in Inghilterra, dove si rivelò provvidenziale l’incontro con Georgiana, Duchessa di Devonshire. Dunque, l’alta società londinese mi accolse volentieri. Mi chiamavano Little Po, credo a causa della costituzione minuta.

Fu un periodo piacevole ma, a fine decennio, dovetti tornare. Accorsi, quando, nel 1789, il piccolo Luigi Giuseppe, il primogenito della Regina, scomparse prematuramente. Probabilmente non ero più adatta a quei luoghi. Lo compresi meglio con il licenziamento di Necker, il ministro delle Finanze. Spinsi io affinché avvenisse, ma quel fatto ne innescò altri, ben peggiori.

Lo riconosco, fu un terribile passo falso. Appena pochi giorni dopo, il 14 luglio, la Bastiglia venne presa d’assalto. Scappai, il 16 dello stesso mese, carica di una borsa contenete 500 Luigi. “Addio più tenero degli amici; la parola è terribile, ma è necessaria; ho solo la forza di abbracciarti“. Ci accomiatammo così, con il cuore pregno di dolore, inconsapevoli di quel che sarebbe stato, per entrambe.

Passai in Svizzera, poi mi tradussi in Italia, infine a Vienna. Nonostante mi sentissi, oramai, alla stregua di una zingara, le lettere con i sovrani erano continue, ininterrotte, presenti.

Il 9 dicembre, poi, mi spensi, a Vienna. Era il 1793. Chi disse che era cancro; altri parlarono di consunzione. So solo che avevo appena saputo della morte di Lei. Il mio sposo mi aveva risparmiato i dettagli, ma la lacerazione era ugualmente senza fine.

Mi vollero, a seguire, come una tra le figure più enigmatiche del tardo Settecento. Una donna dal fascino contradditorio, scrissero. Ambiziosa, manipolatrice, cattiva consigliera, avida calcolatrice. Detrattori, che stentavano a riconoscere in me l’amica leale. Invidiosi. Ingigantirono me, per colpire Lei. Mi screditarono, per punirla.

Non sono morta ed è questo il mio più grande peccato. Ma ho pagato un prezzo altissimo. Intelligenza, bellezza, successo… erano strumenti inaccettabili, doti per cui si richiedeva un’ammenda alta. Se influenzai negativamente la Regina?

Ero una donna, solo una donna a cui veniva offerta un’esistenza agiata, privilegiata – me ne rendo conto – e che ambiva ‘solo’ a stare bene. Quel che rimane sono chiacchere. Si disperdono nell’aria, l’attimo sesso in cui straripano dalla bocca. Io fui fortunata ed ebbi la lungimiranza di far valere la mia fortuna. Null’altro. Luci e ombre le lascio lontane, nel giudizio di chi segue. Gli intrighi, i giochi di potere… checché ne possiate pensare, non mi appartengono.

Gabrielle: ricordatemi così, invece. Solo Gabrielle. Una che ha avuto il coraggio delle proprie idee. Che si è divincolata dalla massa informe dei tanti lacchè che popolavano il Palazzo. Un’amica fidata. Una persona autentica e se decidete di ricordarmi, fatelo come si deve. Sorridete mentre pronunziate il mio nome, poiché anch’esso, come il resto, respira di grazia e di raffinatezza.

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