Le cene d’addio della vedova Renczi…

Le cene d’addio della vedova Renczi…

Verità… oppure solo un’inquietante leggenda? Di me si parla parecchio, si tessono racconti di tutti i tipi eppure… nessuna certezza. Nessuno che attesti come, veramente, stanno le cose. Mi chiamo Vera Renczi ed ho commesso, per la cronaca, almeno 35 omicidi.

Un bilancio ufficioso, a quanto pare, poiché sembra che siano molti, molti più.

Vittime, tutte, della furia della Vedova nera – questo, alla fine, è diventato il mio soprannome. Se mi importa? Se mi infastidisce? Facciano pure, non è affar mio.

Dovete sapere che sono nata a Bucarest, all’albeggiare dello scorso secolo. Era il 1903. Mio padre era ungherese; mia madre romena. Una famiglia agiata, che, almeno fino ai 13 anni, non mi fece mancare nulla. Poi mia madre morì, improvvisamente e noi ci trasferimmo in Serbia. Mi misero in collegio. Non so dirvi se fu allora che si ruppe qualcosa. So solo che le conseguenze di quel che accadde me le portai appresso, per il resto della vita.

Dicevano che fossi un’adolescente ‘difficile‘; che nutrissi un interesse smodato, quasi malato per il sesso. La mia prima volta fu all’età di quindici anni. Adesso sfiorerei il luogo comune ma, allora… era diverso. Mi piacque, credo, perché al primo ragazzo ne susseguirono altri, ed altri, tutti diversi… tutti, per me, con la stessa faccia. Ricordo la notte che mi pizzicarono nel dormitorio… pensate che mi spaventai? Niente affatto, anzi. La faccenda mi regalava ancora più adrenalina. Ero gelosa, sì, e possessiva. Ma come si può essere diversi da così, quando la fame d’amore ti divora dall’interno?

Così, mi misi alla ricerca. Oh, non confondete, non volevo vittime. Desideravo ‘solo’ essere amata e protetta.

Lui si chiamava Karl, Karl Schick. Era un’austriaco. Un uomo d’affari, decisamente in là con gli anni. Un colpo di fulmine, tant’è che ci sposammo immediatamente. Neppure ad un anno di distanza nacque Lorenzo, il mio primo genito. Non mi ero mai sentita così piena, appagata… ma fu un tempo brevissimo, perché – nel giro di poco – le cose di incrinarono.

Lo sentivo… il tarlo mi rodeva dentro, senza pace. Iniziai a sospettare di Karl, lo immaginavo tra le braccia di chiunque altra. Facevo congetture, fantasticavo di scoprirlo, di coglierlo sul fatto… e, intanto, il dolore mi consumava. Mangiava ogni parte di me. Ogni parte più bella di me.

Fu così che decisi di organizzare una cena d’addio. Era una serata di quelle speciali. Un evento, trovarci occhi negli occhi, ancora traboccanti di desiderio. Parlammo poco, non serviva. Ci mangiavamo, reciprocamente, rispolverando le belve che eravamo stati. Insaziabili l’uno dell’all’atra. Sembrava che il tempo, improvvisamente, avesse fatto un salto a ritroso. Sembrava che fosse tornata, intatta, l’atmosfera che ci aveva rapiti… che ci aveva cementati insieme.

Gli offrì da bere. La mano era ferma. Lo sguardo, dritto. Versai il liquido nel bicchiere, armata del più ammaliante dei sorrisi. Poi riposi tutto, mi sedetti e aspettai. Aspettai di leggergli in faccia la fine. L’arsenico avrebbe fatto il suo effetto ed io attendevo, non preoccupata ma curiosa. Era anche questa una prima volta. Eros e Thanatos, Amore e morte. Da quel momento saremmo stati legati, per sempre. Raccontai che era scomparso, per via di un incidente stradale. Mi credettero. Perché dubitare, del resto.

Ancora a lutto, presi a frequentare una serie di locali malfamati. Mi introducevo di nascosto. Era un passatempo, tutto qui. Un modo – l’unico modo – per sentirmi ancora viva, euforica; per assicurami di non essere io nella tomba, a marcire tra i vermi.

Fu proprio lì che conobbi Lui – il nome non ha importanza. Fu l’uomo che divenne, poi, il mio secondo marito. Una relazione tumultuosa, commenterebbero oggi. So solo che rimasi nuovamente delusa, ferita. Ero arrabbiata… schifata. Come è possibile che gli uomini siano talmente piccoli. Mi resi conto delle sue infedeltà nel giro di poco e, nel giro di altrettanto, fui resoluta a procedere. Bastò quel tanto di veleno nel vino e il corpo, nascosto in una bara di zinco, conservata nella tenuta di famiglia.

Ecco, fu in quell’occasione – immagino – che il cuore ebbe a sgretolarsi definitivamente. Non meritavano. Non mi meritavano. Ed iniziai a prendermi gioco di loro. Mai più mi sarei sposata, decisi. Le relazioni clandestine con uomini sposati divennero all’ordine del giorno, così come i rapporti fugaci, con amanti conosciuti chissà dove. Alla fine non li contavo nemmeno più. E tutti, più o meno, fecero la stessa fine. Destinati all’oblio, come era giusto che fosse. Nascosti, in attesa dell’uomo perfetto. Che sciocca! …perdutamente romantica, e inverosimile, la mia visione di un Sentimento potente a tal punto da cancellare tutto il resto.

Se ci ripenso, ora, credo di essere stata un’inguaribile sognatrice… è per questo che, ogni volta, la collera si faceva più forte. La necessità di eliminare la rabbia o, almeno, di farla tacer,. richiedeva sacrifici, sempre più estremi.

Andai avanti in questo modo, per anni. Ingannando, manipolando, riuscendo a scamparla da chi, nel frattempo, indagava sul gran numero di scomparse, sempre più corpose. Sparizioni, che crescevano esponenzialmente.

L’ultimo della lista, se non rammento male, fu un funzionario di banca: Milorad. L’ennesimo avvelenamento, dopo notti infuocate.

Poi, nel 1930, il ‘giocattolo’ si ruppe. Mi presero. Venni arrestata. E videro anche il resto. Lorenzo… io, ho provato a salvarlo. Ho tentato di convincerlo ma era un maschio, esattamente come tutti gli altri. Mi aveva minacciata, capite? Aveva minacciato sua madre. Il sangue del suo sangue. La carne che lo aveva messo al mondo. Che figlio è un figlio che arriva a tanto? Degenerato Lui, come suo padre… come tutti.

In fase di processo, rintracciarono, in me, i primi segni di demenza. Questa fu la diagnosi, quasi a volermi giustificare. Lo credo, altrimenti avrebbero dovuto fare i conti con il loro fallimento. Con la meschinità che li riguardava. Con le enormi pecche… Invece, fecero i conti unicamente con me e con la mia – cito testualmente – ‘patologia progressiva che, in carcere, sarebbe ulteriormente peggiorata.

Mi condannarono all’ergastolo, per le donne era appena stata abolita la pena di morte e, fino al 1960, stetti lì, aspettando la mia fine. Mi abituai al silenzio e vi confesso che, nell’ultimo periodo, mi sentivo avvolta da un inatteso senso di pace. Respiravo, forse mai come fino ad allora.

E’ in questo modo che ho imparato. Ho compreso che l’unica persona incapace di tradirmi potevo essere solo Io. L’unica degna d’amore. L’unica per cui valeva la pena vivere… e morire, consapevole che mai e poi mai l’avrei perduta, una volta che fossi riuscita a raggiungerla.

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