Scacco alla Regina

Scacco alla Regina

Siamo uomini o caporali?, si domandava, niente di meno che Totò, in quell’ormai lontano 1955. Così, difatti, titolava il film diretto da Camillo Mastrocinque e interpretato dallo stesso Principe, insieme ad un magistrale Paolo Stoppa.

Personalissima Odissea di una comparsa di Cinecittà, tale Antonio Esposito, accompagnata da una visione del mondo del tutto personale, diviso – secondo l’attore – tra la maggioranza, fatta di uomini e quei pochi, i caporali – per l’appunto – minoranza, perennemente concentrata nell’esercizio di vessare i primi.

Filosofia ‘fantasiosa’, tanto da venire sapientemente dispensata al pubblico, nell’arco dei 132 minuti di pellicola, in maniera leggera, scanzonata… ma solo in parte, a saper guardare. In verità, insegnamento imprescindibile in cui ciascuno, a suo modo, si può riconoscere.

Fatto sta, la storia si ripete e si ripete e si ripete, ancora e che le facce, come suggerisce proprio Totò, cambino nei lineamenti, poco importa. A rifletterci, anzi… a concentrarsi bene, ci si accorge che i tratti, esattamente come gli atteggiamenti, finiscono per assomigliarsi. Sono uomini, intesi come maschi; sono donne, che assumono espressioni, posture, sguardi – a farci attenzione – riconoscibili. Di più, sovrapponibili tra loro. Ripetizione di un modulo comportamentale che diventa, con il tempo, prevedibile, se non addirittura monotono.

Eccoli qui. Eccole qui. Persone, quasi sempre dalla facciata curata, perché si sa, l’apparenza è tutto. Dai modi leziosi, talvolta manieristici. Con il sorriso perennemente stampato addosso. Talmente inamovibile da tradursi, spesso, senza che neppure ne abbiano coscienza, in una smorfia. Sorta di Joker la cui maschera è involontaria. E’ frutto di una distorsione – anche mentale – e non certo di felicità.

Così, altrettanto, loro, si muovono tra le strade del mondo come fantasmi. Lupi bramosi del sangue del gregge che li possa sfamare, che riesca a saziarne gli appetiti. Vampiri, che chiedono di cibarsi di chi, ignaro e sbadatamente ingenuo, capita loro a tiro.

Del resto, la loro rappresenta una vera e propria arte. Quella, cioè, di attirare a sé le persone, di affabularle… Loro incantano, dapprincipio. Sapientemente selezionata la vittima, si fanno carico di promesse allettanti. Gli prefigurano davanti agli occhi il quadro fatato di un futuro fatto di rose. Un domani, in cui i sogni diventano non solo possibili, ma financo realizzabili. Più bieco ancora, il fatto che tali prospettive le riservino a chi è più fragile; a chi di ‘credere’ ha bisogno; a chi cerca un appiglio, sia pur minimale, a cui appellarsi per andare a avanti, o per rinascere.

Così, entrano. Sanguisughe di vita, penetrano insidiose nell’animo di chi gli sta di fronte. Si insinuano, sia chiaro, un poco alla volta e limano, a poco a poco, le difese di colui o colei che considerano, secondo un modo tutto sincopato di ragionare, l’avversario.

Lo esaltano, dapprima. Ne lusingano le doti. Ne creano di inesistenti, persino, qualora ce ne fosse la necessità, per poi, d’un tratto, ‘rigirare la frittata’. Ecco, dove ci sembrava di poter intravedere la luce, si ripiomba, all’improvviso, nel buio. Si rimane invasi dalle tenebre, invischiati – proprio come accade agli uccelli con il catrame – e, il più delle volte, senza via di uscita. Catturati dall’idea di un ricatto che è soprattutto mentale e, per questo, ancora più efficace.

Sembra e quel sembrare vale più della verità. Già, la verità. La verità è che si tratta di esseri infimi, biechi, manovratori, manipolatori dell’altrui intelletto, nell’obiettivo di raggiungere scopi personali. E sì, a prefigurarsi tutta una serie di obiettivi, nella vita. Sì, nella scelta di disegnarsi un percorso che ci appaghi, ma non sulla pelle degli altri. Mai capaci di fare i conti in tasca a se stessi. Mai in grado di ammettere gli errori. Mai propensi a chiedere scusa, a rispettare, a retrocedere.

Caporali, dicevamo, o Caporalesse, a seconda dei casi. Che poi, a dire il vero, poco cambia. E una volta che la preda è catturata, come ragni silenziosi si avvicinano, pronti a sferrare il loro colpo, di botto; preparati a spargere il veleno. Hanno studiato, nel frattempo. Hanno visto, compreso dove attaccare e in che momento, consapevoli del pensiero che, più hanno elevato l’ego di quello che rappresenta – per l’occasione – il capro espiatorio, più l’impatto di quest’ultimo con la realtà sarà olocausto. Nero, nero pece, con loro, davanti, incuranti, lo sguardo distratto. Disattenti, annoiati…

Lupi mannari – dicevamo – parassiti. Capitano e in giro ce ne sono sempre di più, ma per essere cattivi, cattivi veri, occorre anche saper essere intelligenti e questo, propriamente, non è cosa loro o, almeno, non di tutti. Elogio a chi riesce, quindi, ma gli altri – per fortuna – finiscono per smascherarsi da soli. Aldilà dei modi affettati, delle parole che vanno ostinatamente oltre il necessario, gli occhi parlano e registrano ‘vuoto’. Un vuoto abissale dentro il quale, a soffermarsi, ci si perde. L’ego è straripante, la prosopopea non ne parliamo e non c’è un briciolo d’interesse verso l’interlocutore.

Basta poco. Basta attendere anche solo un banale: “Tu come stai?” “Tu che ne pensi?“… frasi che, con tutta probabilità, non arriveranno mai. Constatazione di un’abitudine consolidata, reiterata, cristallizzata nel pensare unicamente a se stessi, nella presunzione di possedere l’unico verbo possibile. Il solo, giusto e utile. Ecco, fine del sermone.

Ebbene, da costoro – che comunque rimangono abili nel colpire per tutti i motivi sopra elencati, ci si può difendere. Serve equipaggiarsi a dovere, certo. Munirsi di capacità di ascolto, per valutarne ogni parola; istinto, per poter percepire nell’immediato quel che stride; intelligenza, per affrontarli, senza passare dalla parte del torto; prontezza, per non soccombere, quando ci colgono impreparati, di soppiatto; gentilezza. Sì, avete compreso bene, gentilezza, per giocare con le loro medesime armi. Melliflui, svampiti, intimiditi, all’apparenza. Lasciando trapelare quel che serve e non di più. Non uno spillo, che possa ripercuotersi a nostro danno.

Sembra una guerra e, in fondo, lo è. Un duello sottile, combattuto con armi ‘invisibili‘ e, pertanto, ancor più pericolose. Si regge sui nervi, questo tipo di sfida e spesse volte, se non si può andar via, si regge, pure, sull’adattamento e la forza di resistenza. Resilienza, che può risultare vincente, nel lungo termine.

Altrimenti, un sano e verace commiato: trasparente, genuino, ‘de core‘ – come direbbero nella Capitale – non sbaglia mai. Liberatorio, catartico, definitivo, di fronte a tanta pochezza.

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