Storia di June, pedofilo di Hollywood
Tutta colpa di mamma Selina. Era Lei che mi aveva imposto – e così ero andato avanti, almeno fino all’età di 18 anni – quel vezzeggiativo. Mi chiamava June e come tale, crebbi. Ugualmente, che se mi fossi trovato sull’uscio di un bivio.
Così, agli uomini e alle donne preferivo… i ragazzini. Uno stuolo di raccattapalle dal faccino fresco, che mi orbitava costantemente attorno.

Già, perché non vi ho detto, ancora, che la mia specialità era il Tennis. Sorta di Sinner ante-litteram, che faceva appassionare e sognare il suo affezionatissimo pubblico. Mi consideravano – e non lo dico per vanto, fate bene attenzione; né, tantomeno, per piaggeria – il talento più evidente del primo quarto del ‘900. Che, poi, lo fossi davvero o meno, in fin dei conti, cosa importa…
Fatto sta, Big Bill Tilden era, per la gente, il mio soprannome, registrato, all’anagrafe, come William Taten Tilden II. Un talento della racchetta, prestato… al Cinema. Nel cuore degli anni ’30, era facile trovarmi nelle pellicole, la cui ambientazione contava come set la Scuola americana, come – pure – tra gli ospiti fissi dei cortometraggi firmati Universal. Ero, allo stesso modo, cronista per la British Lion.

Nonostante la gloria rimanevo, tuttavia, un timido. Uno che, abbandonato il proprio strumento di lavoro, non si incontrava mai negli spogliatoi o nelle docce comuni. Preferivo – come dire – portare a casa la puzza di sudore. Ci avrei pensato poi…
Ma, torniamo ai miei ganimedi prepuberi, in aderenti calzoncini di tela bianca incartati. Una volta, a Wimbledon, uno spettatore sagace ebbe a commentare: “Sembra che Tilden abbia messo su un harem di raccattapalle!”. Ebbene, il commento arrivava per voce di Vladimir Nabokov. Quel Nabokov, lo stesso che – più in là – sarebbe stato l’autore di uno tra i romanzi più celebri e chiacchierati di sempre – Lolita – il cui insegnante di tennis, per l’appunto, indossava, nel libro, il mio nome, sapientemente elaborato al contrario, per renderlo meno evidente: Ned Litam.

Dissimulazione che, d’altra parte, operavo Io stesso, in prima persona, circondandomi di partner (sportivi, intendo), veri e propri assi del palcoscenico. Comparivano, nel foraggiato elenco, ad esempio, Valentino, Louise Brooks, Ramon Novarro, Clara Bow e l’immancabile Charlie Chaplin che, all’epoca, per assiduità di presenza, era paragonabile al prezzemolo.
All’età di 29 anni, poi, l’incidente. Banalmente, a causa di un’infezione all’unghia della mano destra, i medici furono costretti ad amputarmi la punta del dito. Nessuna ripercussione sul mio gioco, per fortuna. In compenso, mi guadagnai ‘anche’ la nomea – come se non fosse già bastata la precedente, quella di Puzzone – di Manomozza. Dunque, come spesso accade in situazioni di tal fatta, erotizzai, per esorcizzare le circostanze, la mutilazione, facendo della mia menomazione un motivo di lussuria.

Oh, no! Non erano solo pensieri… purtroppo, no. Il 23 novembre 1946, la Polizia di Beverly Hills mi arrestò. Depositò me e quel che rimaneva delle mie dita birichine in carcere, con l’accusa di ‘molestie pesanti‘. Mi avevano beccato in macchina, intento a fare un ‘servizietto’ di mani, appunto, ad un ragazzino consenziente. La mia versione? “Sul campo da tennis incontrai un ragazzino che prometteva bene. Tra Noi nacque, non so come, una specie di affetto puerile. Tornando a casa, dopo aver visto Torna a casa Lessie, il gioco mi prese la mano…“. Peccato che il giovane talento fosse figlio di un importante produttore della 20th Century – Fox. Un pulcino, che la Buoncostume pensò bene di ricondurre, nell’immediato, all’ovile. Lì, Papino, venuto a conoscenza delle braghe calate del figlio, gli somministrò una sacrosanta scarica di botte, nel bel mezzo del suo studio, stracolmo di trofei. Anni più tardi la scena si sarebbe ripetuta, a parti inverse, con il figlio che schiaffeggiava l’ormai defunto genitore, in una cella mortuaria del cimitero di Forest Lown.
Scontai otto mesi – per il misfatto – in una cosiddetta ‘fattoria modello‘. Servivo a tavola, lavavo i piatti… in generale, mi prendevo cura degli altri detenuti. Se la lezione bastò? Vi state – magari – domandando. Mi ribeccarono, più in là, nei pressi di una scuola. Ero lì, posizionato all’uscita, intento a cucinarmi il pollastrello di turno. “Era Lui il Mostro delle Cinque dita che mi cosava lì…“, testimoniò il bimbo, avvistato dal binocolo Zeiss, di cui viaggiavano equipaggiati i custodi della legge.

Stavolta, fui inviato dritto di filato ai lavori forzati. Di colpo, tutte le conoscenze, le amicizie, i contatti erano svaniti. Relegati al ruolo di fantasmi. Disgustati, forse. Impotenti, i più. Oltraggiati, rispetto ai miei comportamenti. Ero stato in confidenza con quattro Presidenti degli Stati Uniti; vantavo, tra i miei compagni di battuta, Erroll Flynn, Spencer Tracy. Tra le allieve altolocate spiccavano Tallulah Bankhead, Keterine Hepburn, persino la divina, per eccellenza: Greta Garbo. Eppure…
Riassunto. Ero, alla fine della Fiera, solo…. e povero, dal momento che il mio patrimonio era stato esautorato dalle spese legali. Nel ’40, come se non bastasse, decisi di investire. La riedizione teatrale di Dracula, su cui tutto avevo puntato e nella quale impersonavo – ovviamente – il protagonista, si rivelò un disastro.

Potrei raccontare, a mia giustifica, dei tanti episodi in cui l’esistenza mi aveva voluto vincente: avevo ‘portato a casa’ 19 premi, risultato della partecipazione ai tornei del Grande Slam; fui inserito nell’elenco dell’International Tennis Hall of Fame. Ero stato, a tutti gli effetti, nei primi tre decenni del secolo, il rappresentante più influente nella storia del Tennis. Sdoganai l’immagine stessa di uno sport fino ad allora considerato per ‘Signorine‘, assurgendolo ad evento di massa adatto a tutti, financo alla classe lavoratrice. Mi profusi in lungo e in largo, nella volontà di allestire spettacoli e film scritti, prodotti, recitati direttamente da me. Un mecenate, non credete? Scrissi anche racconti e una serie di romanzi. Mi avrebbero dovuto condurre al successo, invece mi sentivo incompreso. Non capito. Travisato…

Fu così che bussò, alla mia porta, quel fatidico 5 giugno del 1953, la Dama Nera o chiamatela voi come più si conviene. Tant’è, un attacco cardiaco bastò, per stroncare carriera ed esistenza. Mi trovarono riverso sul letto di un modesto appartamento, in una squallida viuzza di Los Angeles che in pochi, a dire il vero, conoscevano e conoscono. Ero completamente vestito, pochi spiccioli addosso. Mi stavo preparando a partire per Cleveland. Di lì a poco si sarebbe tenuto l’United States Professional Championship, tra le competizioni per professionisti, più apprezzate e note di sempre.
Non feci in tempo, tutto qui. Il crepacuore aveva avuto la meglio. Mi aveva preceduto, facendomi lo sgambetto. Match point e la palla era finita esattamente nell’altra metà del campo, da cui non si poteva recuperarla.

Trasportarono la mia salma a Filadelfia, per seppellirmi accanto al corpo di mia madre. June ritornava finalmente al nido. Protetto dall’abbraccio genitoriale, ero al riparo, oramai, delle insidie e dai pericoli di un mondo che – ahimè – non riusciva – suo malgrado – a comprendermi.
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