Monicelli: l’uomo che la rivoluzione la operò con la Settima arte
Dieci anni. Tanti ne sono trascorsi da quel 29 novembre 2010, data in cui, al calar della sera, decise – in maniera lucida – di mettere fine – anche – alla propria esistenza. Una scelta tragica, sintomatica – tuttavia – di un carattere che si era reso manifesto e coerente attraverso il tempo. Così se ne andava uno tra i massimi esponenti del Cinema nostrano. Mario Monicelli, il Maestro Monicelli, ci ha però lasciato un’eredità ineguagliabile. Un bagaglio di produzioni dal taglio netto e irriverente, attraverso le quali ha voluto raccontarci un’Italia ironica e amara. Talvolta, feroce. 50 imprese, ritratto di oltre 60 primavere di carriera.
La Grande guerra, L’armata Brancaleone, Amici Miei e tante, tante altre pellicole, fino all’ennesimo Capolavoro, emblema di un epoca e atto primo di un modo di girare, che avrebbe, poi, aperto le porte al genere.
Ma I soliti Ignoti non è solo il talentuoso frutto di un genio della Settima musa. E’, piuttosto, l’elaborato di un metodo consolidato, dai toni empirici. Eppure effettivamente funzionale.
Erano soliti, il ‘nostro’ e un gruppo di pochi, fidati amici sceneggiatori, sedersi la mattina al tavolino di un Bar e lì, tra dissertazioni e chiacchiere – più o meno generiche – arrivare a tracciare il canovaccio di una sceneggiatura che, solo al calar del sole, si sarebbe reso vivo su carta. Annotazioni, al margine di un taccuino, nulla di più, ma se a prendere appunti erano personaggi del calibro di Stefano Vanzina, Age&Scarpelli, Suso Cecchi D’Amico beh, allora la questione è da rivedersi. Penne, messe al servizio della macchina da presa, capaci di emulare i romanzieri più celebri. Pensare che, proprio per quel tipo di attività avrebbe voluto distinguersi, all’inizio, il regista…
Ma torniamo a noi. L’idea del film nacque sulla falsariga dei Caper movie o film di rapina. Bande di professionisti del crimine – per capirci – affiancati da donne bellissime e dotati di un ingegno fuori dal comune. Un’opera, in particolare, aveva colpito l’attenzione di Monicelli. Si trattava di Rififi (1955) di Jules Dassin, il cui accento di distinzione era tutto racchiuso nell’epilogo; vale a dire – straordinariamente – un terribile fallimento.
Rimaneva, ciononostante, un drammone francese, che mal si adattava all’atmosfera, cialtrona e assai più scanzonata, che si respirava in patria. Perché, dunque, non tracciarne una parodia?
Così, il neo realismo, tanto osannato ai tempi finì, attraverso un lavoro minuzioso ed un cast d’eccellenza, per sposarsi all’idea di un’Italia che, sia pur lontana dal boom economico, non aveva punto voglia di prendersi sul serio.
Eccola, dunque, l’allegra e sbrindellata brigata, ladruncoli dell’ultima ora, alle prese con la “comare” (la cassaforte) di un banco dei pegni. Già, ma qui c’era di più. Compariva, per la prima volta in una commedia e con la crudeltà che sola sa apparecchiare la realtà, la morte violenta di uno tra i protagonisti. La colonna sonora, firmata Piero Umiliani, poi, consisteva un un’ensemble jazz, che saturava l’aria di azione, regalando il presagio che, nell’immanente, qualcosa sarebbe successo.
Conseguenza del tutto: due Nastri d’Argento e una candidatura all’Oscar come Miglior film straniero. Un racconto, capace insieme di scuotere e divertire, commuovere e suscitare folgoranti risate, per chiudersi in un’ultima scena, anch’essa iconica, in cui ogni speculazione sul furto affoga in un ben più confortevole piatto di pasta e ceci.
Ultimo capitolo, come si accennava, il cast. Calibri da 90. Un’associazione di vere e proprie macchine da guerra. E se la presenza di Totò era stata praticamente imposta dai produttori, quella di Gassmann fu una vera rivelazione. La parte sarebbe dovuta appartenere ad un assai più ‘bontempone’ Alberto Sordi e, invece, l’altisonante ‘mattatore’ teatrale, ricesellato sotto le sapienti mani del cineasta, che ne ridefinì i tratti somatici e financo la voce, costrinse gli spettatori a bocca aperta. Accanto, il bel Renato Salvatori, i caratteristi Capannelle e Tiberio Murgia, un Mastroianni ancora in procinto di scrivere la propria storia ed una Cardinale fresca ed incinta del primo figlio.
Un lungometraggio, che finì per segnare gli stessi interpreti. Si racconta che proprio Mastroianni fosse poco incline ad accettare la parte, condizionato dall’ingombro dei tanti colleghi, tanto che, quando, più il là, gli venne proposto il ruolo che fu, poi, di Ugo Tognazzi in Amici miei, l’attore si trovò, suo malgrado, a rifiutare, nel timore di rimanere offuscato, sotto la scure di un clima espressamente e disinvoltamente corale.
Non comprendendo, invece, l’interprete, che la potenza dirompente di questi 102 minuti di riprese è proprio lì, nel contributo unico che ciascuno imprime di sé. Elementi di un meccanismo rodato, che gira perfettamente, proprio in virtù del fatto che ognuno, inderogabilmente, esegue la propria missione.
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