Che Italia, Mammamia…
Eccola. La ‘stramaledetta’ mattina in cui ne puoi parlare è arrivata. Quella in cui, finalmente, puoi concedere libero sfogo a quel che ti alberga nell’animo, da settimane.
La stessa in cui ti svegli e ti chiedi: “Sarà tutto vero?“. Pensare che sei rimasto lì, zitto, un incontro via l’altro, nel timore di un’eventuale frustrazione. Nella paura, al dunque, di ritrovarti con in mano solo un pugno di mosche. Hai fatto leva su te stesso, persino quando avresti desiderato esplodere dalla gioia. Invece hai atteso. Paziente. Come ti hanno insegnato. Come si faceva una volta…
Ma, adesso, ci sono le immagini a offrirsi da garante. A confermarti che non ti sei illuso, che è tutto vero. La prima – lo sai che ti si è già conficcata nel cuore – è quella di un abbraccio. Potentissimo. Quel fotogramma rappresenta l’essenza di un vissuto. E non è solo il tuo. Il significato di un percorso, che sembrava non dovesse terminare mai. La fatica, l’impegno, la sostanza e quel carico di sogni che, anche quando vorrebbe volare, deve rimanere giù, ancorato a terra, a fare i conti con la responsabilità.
Lacrime. E sembra un pianto infinito quello che ripercorre la stretta tra Mancini e Vialli. Il primo gesto di vera umanità, dopo tanto stringere i denti e soffrire, soffrire, soffrire… perché la meta si fa ogni giorno più vicina e, nel contempo, la strada, ogni volta più divelta. E invece no, ora ti puoi permettere pure il lusso delle tue debolezze. Hai la facoltà, dopo tanto, di essere fragile e forte insieme. Felice e sconquassato, giacché nel rimestio che ti percorre, le sensazioni sono innumerevoli e alterne.
Poi c’è l’altra immagine, quella che ti riporta ad un altro momento – assai simile – di inaspettata esaltazione. La rete della porta che viene tagliuzzata dai giocatori e presa via, a mo’ di scalpo, ti rievoca alla mente un’altra generosa vittoria, non meno di qualche giorno fa, di altri Azzurri. Si trattava della Nazionale di Basket, allora, ma che importa? La felicità negli occhi, straripante, è esattamente la stessa.
Vedi al telefono Chiesa – il combattente Chiesa, l’affidabile Chiesa, l’instancabile, sopra ogni pallone – gridare al telefono: “Ti amo, mamma!” e, di colpo, quel medesimo gladiatore ti appare esattamente per ciò che è: un bambino o, al più, un ragazzo. Giovanissimo. Come giovane è colui che ti ha condotto a questo risveglio così dolce… Quasi due metri di uomo, premiato come Miglior giocatore del Campionato, attento a tutti i lanci. Preventivamente accorto a scacciare il pericolo. Presente, soprattutto, laddove le cose sarebbero potute andare diversamente. Donnarumma – classe 1999 – non esulta neppure dopo la ‘parata’, l’ultima; quella che ha cambiato la storia di una partita iniziata male. Al 2° minuto eravamo già sotto, schiaffeggiati da una realtà che, lì per lì, voleva presentarsi violenta, perentoria.
Niente affatto. Perché quel che noi portavamo nel bagaglio era altrettanto pesante. Te ne accorgi, ancora, mentre ascolti, in post competizione, quei ‘bischeri’ di Chiellini e Bonucci, che esaltano lo spirito di squadra e le diversità di ciascuno. Raccontano, i due, di come in 26, posseggano vizi e virtù. Come tutti, del resto. Ma che la differenza l’abbia fatta la testardaggine nel ricercare, reciprocamente, i pregi, dimentichi di quel che, in fondo, neppure interessa. E uniti. Fino all’ultimo capitolo.
Piangono il C.T con il suo amico più caro, quello dei tempi non di una Samp – si badi bene – ma della Samp e piange Jorginho, pure, disperato per un goal non segnato ma, allo stesso tempo, carico di riconoscenza, per non essersi, in solitudine, dovuto sobbarcare il peso di un fallimento. E, ancora, c’è Spinazzola, trascinato, con tanto di stampelle, di qua e di là per tutto il campo. Perché c’era, anche quando non poteva più esserci. Perché la gara – questa gara – è stata ed è anche la sua. C’è chi, negli occhi, ospita incredulità (vd. Florenzi, in gioco solo negli ultimi minuti dei supplementari); chi euforia; chi, ora, ha modo, dopo tanto resistere, di rivelare apertamente il proprio orgoglio.
Come potrebbe essere altrimenti, del resto, alzando gli occhi al cielo e trovandosi ad assistere, sorta di tetto sullo Stadio di Wembley, ad un arcobaleno Tricolore, sgargiante, vivo, caparbio di tutta la luce che può catturare? E lo sai che non era facile, ma quella che puoi riassumere come felicità, te la sei davvero conquistata. Anche quando i tuoi tifosi erano appena 7000, contro le migliaia ad invadere un tappeto verde, targato Inghilterra.
Nella ‘fossa dei Leoni’ ci sei stato e non ti sei ‘salvato per miracolo’ perché, se ti volti indietro, rivedi un percorso, fatto di coerenza e sacrificio. Respira di Epopea la notte appena trascorsa. Misura di valori che sembravano lontani. Dimentichi. Eppure, guarda, qualcuno è tornato qui a riportarteli, per goderne insieme.
Mentre osservavi, sugli spalti, Beckham, impeccabile ed elegantissimo, cercare la mano di Tom Cruise, o Kate Moss che, a guardarla, pare aver stretto un patto con il Diavolo… sembrava tutto già scritto. It’coming home, hanno ripetuto i Britannici per l’intero itinerario e lo hanno fatto come fosse un mantra, caricandosi, forse esageratamente, di un messaggio che, alla fine, poteva ritorcerglisi contro.
Il calcio – fortunati noi – a dispetto di ogni possibile senso di sufficienza: ‘It’coming Rome‘, come ha tenuto a ribadire, non meno di ieri sera, uno dei ‘Nostri’. Troppa spocchia, chissà. Esagerata prosopopea, nell’esser convinti di avere in tasca le carte per portarla a casa. E boriosi, gli altri, persino nella mancanza di fair play, Loro, che si vantano di essere i Principi delle buone maniere.
Ma può succedere. Può accadere che le cose non vadano secondo copione e che, anzi, quest’ultimo si snodi in maniera più che differente. Addirittura opposta. Ai primi 45 minuti – più sei di recupero – di incertezza, di smarrimento – forse, un pizzico – hanno fatto seguito tre quarti d’ora di incessante abnegazione. All’inseguimento di un successo che doveva portare la firma Italiana perché ci avevamo sputato, in questo progetto, tutto il sangue che avevamo in corpo e, con esso, tutte le energie.
Così, si arriva ai rigori e ti appelli alla legge delle probabilità. Rammenti che non è trascorso poi molto da quando hai vinto allo stesso modo e ti domandi se, a così breve distanza, possa riaccadere. Senti il petto che bussa all’impazzata mentre ti costringi, quasi, ad assistere a quella che potrebbe essere una debacle. “Non siamo mai stati i prescelti della Dea bendata“, rifletti nell’intimo e un po’ ti verrebbe da abbandonare, perché hai dato ogni frammento di te stesso. Sei prosciugato… o quasi. Ed è a quel ‘tantino’ che è rimasto, che ti sforzi di fare appello. Non lesini, non puoi. Te lo impedisce lo schermo che continua a proporti fotogrammi di gente pronta a lottare. A crederci. Vorresti scappare, chiudere, almeno, gli occhi.
Macché, senti che ti devi disobbligare, quanto meno, dall’averti condotto fin qui. Perciò lo incateni, lo sguardo. Lo incolli alla tv o al monitor del Pc e impari a ‘stare’. E ti rendi conto che, di scontato, non esiste nulla. Che anche i rigoristi più quotati sono quel che sono, uomini pressoché imberbi, con indosso una maglia e che, nella vita non c’è spazio per la resa. Non fin quando il match è ancora aperto.
Poi, d’un tratto, i giochi si chiudono e vorresti solo che una serata magica come quella appena trascorsa non terminasse mai. Di colpo detesti il Sole che ti porterà via una notte luminosa, al pari di nessun’altra e quando, al fine, ti corichi, devastato e sfatto, ti risuona ancora, nella testa, la voce di un Caressa, letteralmente impazzito: “Grazie Signore che ci hai dato il calcio!“, urla a squarciagola come, probabilmente, stavi facendo tu, a casa. Ti senti parte di un tutto. Hai piacere, nell’intravedere il sorriso di Mattarella e persino la presenza di Berrettini, reduce, nella stessa giornata, da un incontro non meno sanguigno, risulta, a tuo parere, rassicurante.
E, nel contempo, nutri la presunzione di sapere che domani sarai più forte, motivato. Che ciò che è accaduto non è un Miracolo, anche se tanto ci assomiglia. Ma qualcosa che – è questa la vera lezione – se ci credi, puoi produrre anche tu.
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