Velasquez e le sue storie ‘brutali’ tra gli Dei
Un gruppo di uomini. Tutto qui e potrebbero essere personaggi qualunque, se non fosse, tanto per cominciare, che la rappresentazione è ad opera di un certo Diego Velázquez. Avete presente? Dipinto, ospitato presso il Museo del Prado e che si propone come narrazione tesa, interpretazione visiva degli stati d’animo dei suoi protagonisti.

C’è un ragazzo, un giovanotto impettito e dall’aria grave, sulla sinistra. Un messaggero imberbe, latore evidente di ‘non buone notizie’. La compagnia a torso nudo è tutta presa ad ascoltarlo. Uno, in particolare: il fabbro con la barba, la testa protetta da un fazzoletto e l’espressione che oscilla in una ridda di emozioni. Si leggono, sul suo volto, insieme, rabbia, sorpresa, incredulità, disperazione.
Né da meno risulta l’espressività dei restanti operai della fucina. Stupefatti e indignati, dai visi accaldati e deformati nell’ascolto di ‘qualcosa’ che, evidentemente, li sorprende. Rappresentazione, quella in essere, forse più importante del cosiddetto Siglo de Oro, periodo compreso tra il 1492 e il 1659 e che, attraverso il gioco dei pennelli, riporta un episodio celebre del mito greco. Apollo – appunto – messaggero splendente, fa visita a Vulcano per rivelagli un segreto. Fare la spia, come racconta Ovidio nelle sue Metamorfosi. Ermes è il primo ad accorgersi che Venere tradisce ripetutamente il marito con l’aitante e virile Marte. Una storia di ‘corna’, insomma, volendo semplificare. Corna sacre, sia ben chiaro ma tale è.
Una tela speciale, questa, poiché risponde a tempi particolari. E’ il 1630, tanto per cominciare, anno in cui l’artista si reca per la prima volta in Italia, sponsorizzato – allora – proprio da Rubens, mentore, ancor prima che rivale. Influenza peninsulare, che ne determina un cambiamento nell’esecuzione artistica. I personaggi si fanno, dunque, più definiti e carnali, figli di un ‘verismo’, da lasciare a bocca aperta… persino il Papa.

Pittura ‘verità’, chiave di un Velázquez proteso a cogliere precocemente e meglio di altri i cambiamenti della società e il suo rinnovarsi. Parimenti, non può esimersi dal notarne il declino, simbolo, l’artista, persino di un resoconto politico, laddove per Filippo IV l’arte era uno strumento di cui avvalersi, per le sue missioni diplomatiche. Veicolo, per di più, di una propaganda dagli ampi orizzonti. Ecco, allora, che il suo si erge a linguaggio internazionale, che prende le mosse dalle diverse sponde del Mediterraneo, per spingersi altrove.
Riscrive, a tal proposito, il nostro, il concetto di phatos, rivelando, attraverso il suo operare, le segrete vulnerabilità dei potenti e il vissuto della povera gente, alle prese con le difficoltà di tutti i giorni. Portavoce di una bellezza disadorna, trionfo di nudità essenziale. Forma pura, per intenderci. Persone, quelle che l’autore ritrae, che nulla hanno a vedere con le mere caricature di se stessi.
Niente retorica, tradotto, neppure nel ‘fattaccio’ di cui sopra. Misurarsi con gli episodi del mito era, d’altronde, un passaggio pressoché obbligato, nel Barocco. Eccola, pertanto, l’osservazione smaliziata di un poeta del pennello ironico e auto-ironico. Apollo, secondo la sua visione, assomiglia ad una lavandaia pettegola. Vulcano veste i panni di consorte inacidito e geloso, misero nelle pochezze di uomo; persino i Ciclopi paiono niente altro, se non ‘compagni di bevute’. Operai, sudati e pronti a menare le mani. A conferma della costatazione che il dolore, come la morte, sono trasversali.
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