Fotografia di un’Italia, dopo un anno di Smart Working

Fotografia di un’Italia, dopo un anno di Smart Working

Cosa può suscitare più ansia di un cambio di equilibri? Rivisitare le abitudini, magari quelle conquistate pure a fatica, non è sempre facile. Ecco, dunque, spiegato come, per molti Italiani, rinunciare – adesso- alla procedura dello Smart Working non risulti proprio immediato. Se da un parte, infatti, a fare la parte del leone, in fase di rodaggio, si sono resi protagonisti ansia da prestazione, dilatazione delle ore di lavoro, senso di isolamento. Dall’altra, il deciso risparmio di tempo nel percorso casa-ufficio ed un guadagno anche negli spazi da dedicare a se stessi, hanno finito per mettere in crisi persino i più recidivi.

Adesso – pare – si volta pagina e, ancora, l’argomento divide. Per il 57% dei connazionali l’esperienza si è, difatti, rivelata altamente positiva, tanto da sentirsi in vena di proseguire. Diverso è per quanti – il 43,5% – si adatterebbero volentieri al ritorno ‘in campo’. Circa 4 persone su 10 sarebbero ben liete di riabilitarsi in presenza, a fronte del 16,7%, desideroso, al contrario, di rimanere in home-working.

IL SONDAGGIO

È ciò che emerge da un’indagine, realizzata dalla Fondazione Studi dell’Ordine dei Consulenti del Lavoro, per mappare la situazione dell’occupazione ‘da remoto’, ad un anno dal lockdown.

Smart working, una rivoluzione nel lavoro degli Italiani: questo il titolo della ricerca, che già la dice lunga. Ma partiamo dai numeri: ad aprile 2021, circa 7,3 milioni di lavoratori operavano ancora da casa(31,7%). Il 14,8% in forma esclusiva, non presenziando mai in sede. Il 16,8% in modalità, chiamiamola pure, ibrida.

Chi sembra aver maggiormente patito il cambio di passo – in termini relazionali e d carriera – sono gli uomini (52,4% contro il 45,7% delle donne), guadagnandone, tuttavia, a livello di produttività e concentrazione. Viceversa, il 57% delle signore, contro il 50,5% degli uomini ha risentito del procrastinarsi delle ore da dedicare all’occupazione e dell’inadeguatezza degli spazi casalinghi. Di qui, il maggior rischio di disaffezione (44,3% rispetto al 37% dei colleghi). E’ vero, in almeno 6 casi su 10 professione e vita privata si sono ritrovate conciliate, ma non così è stato, per chi aveva maggiori carichi familiari.

FAVOREVOLI E CONTRARI

Le ricadute pratiche, sono andate determinandosi in termini di spese e disturbi fisici, legati – il più delle volte, a postazioni domestiche non confacenti. Ben il 48,3% degli intervistati dichiara di aver pagato lo scotto per l’utilizzo di sedie e scrivanie improvvisate; mentre il 39,6% lamentala scarsa prestanza delle infrastrutture, come – ad esempio – i collegamenti di rete.

Un tira e molla, quello messo in luce dallo studio, a conferma di un maggior ricorso al lavoro ‘agile’, per gli addetti al terziario, ai servizi alle imprese, credito e assicurazioni. Una pervicacia, invece, per gli altri, nel voler mantenere ancora in vita modelli più tradizionali, financo quando obsoleti.

La varietà delle casistiche riportate all’interno del Rapporto evidenzia la necessità di ripensare alla regolazione del lavoro subordinato, auspicabilmente lasciando alla contrattazione collettiva il compito di rintracciare le migliori soluzioni, per contemperare le richieste di Imprese e lavoratori“. E’ quanto si evidenzia, a conclusione dell’inchiesta.

Il punto è, forse, proprio qui: abbandonare vecchi schemi e rivolgersi ad un tipo di gestione dell’impiego, studiata di caso in caso, personalizzata. Eco-friendly, potremmo ribattezzarla così. Corroborata dall’esperienza guadagnata negli ultimi 12 mesi e rivolta ad un miglioramento che non si consumi esclusivamente su carta, ma sia disposto, con tutte le verifiche del caso, a mettere in atto comportamenti, volti a descrivere una professionalità competitiva a attenta, allo stesso tempo.

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