Magnifica preda: Marilyn come nessuna…

Magnifica preda: Marilyn come nessuna…

Buffo, sento parlare di me come di una bionda chioma, sguardo ammiccante, camminata… beh, da far girare la testa. L’antesignana tra le pin-up. L’amante, niente di meno che del Presidente Kennedy. O dovrei dire dei Presidenti… ma questa è un’altra storia.

Eppure, vi siete mai fermati a guardarmi sul serio? Anche un solo istate. Avete provato, anche per mera curiosità, ad andare oltre la riga d’eye liner tracciato a pagoda o delle labbra rosso fuoco, conturbanti, voluttuose…? Un’immagine, costruita a tavolino. Ottenuta, a seguito di ben tre ore di trucco. Tutto questo vi sembra forse verità?

Si racconta di me, chi ha voluto approfondire, al riguardo, almeno, lo dice, che io sia stata istruita, intelligente, ambiziosa. Un donna, apparentemente, con tutte le carte in regola. Una donna, al contempo, esageratamente fragile.

Vi domanderete perché vi racconto tutto questo… perché vi chiedo di interrogarvi. Ebbene, il punto è che Norma Jean lamenta ancora troppe lacune. Ha trascorso un’esistenza alla ricerca di risposte e poi, alla fine, è stata inghiottita da un manto nero. Profumata e bellissima, pure da morta. Financo mentre giaceva, cadavere, nel proprio letto. Suicida? Uccisa? Questo, poi, rimane un altro mistero.

Una ragazza del 1926. La figlia, per dirla tutta, di una schizofrenica paranoide. Dipendente dall’alcol. Le premesse per crescere ‘storta’ c’erano tutte. Non credete? …Mortenson Baker: sapete a chi appartengono i miei due cognomi? Ai mariti di lei, di mia madre. Non hanno nulla a che fare con colui che, in teoria, mi avrebbe generata. Un escamotage, affinché non venissi dichiarata illegittima. Tutto qui. Ma, in quanto a sapere chi fosse mio padre…

Deve essere per questo che mi sono affezionata e avvinghiata, nel tempo, a uomini che sentivo perentoriamente forti. Potenti, io così infinitamente piccola e, pertanto, capaci di proteggermi. Cosa potevo saperne, allora, del loro essere eternamente bambini? Bisognosi, a tutte le età, di una mamma? E, in ogni caso, che madre mai avrei potuto essere Io, sulla base di quanto vi ho finora narrato?

Sono cresciuta a casa di Wayne e Ida Bolender, affidata a loro. Forse dovrei specificare venduta, perché di questo si trattò. Gladys, lei, quella che mi aveva generata, non era in grado di crescermi. Non di prendersi cura di me. Così mi affidò alla coppia, almeno finché non mi ritrovai in orfanotrofio. Di tanto in tanto, mi davano ‘in pasto’ ad una nuova famiglia, ma finivo inesorabilmente per venire rispedita al mittente. Sorta di pacco guasto, mi lasciavo dietro, di volta in volta, problemi di molestie e disattenzioni.

Capite? La mia infanzia è stata questa. Si è spesa così. Poi vi domandate perché i miei occhi sembrano tanto avidi di amore…

E cominciai presto ad avere appetito. A 16 anni, nel 1942, sposai James Dougherty. Una famiglia mia, con tanto di certificazione. Lui si arruolò nella Marina mercantile; Io presi a lavorare come operaia nella fabbrica della Radio Plane. Era una compagnia aerea che si occupava di confezionare paracaduti. Un lavoro, nulla di paradossale. Ma era dignitoso. E lo fu, almeno per i tre anni successivi.

Poi, un certo giorno, presso lo stabilimento si presentò David Conover. Era un fotografo, uno di quelli che ‘ci sanno fare‘. Era in cerca di ragazze da ingaggiare affinché, attraverso la loro immagine, tenessero sollevato il morale delle truppe al fronte. Mi notò. Mi vide… Mi chiese se, per caso, avessi mai pensato, prima, di intraprendere la carriera da modella. Ci volle così poco a convincermi. Quando hai fame di esistere basta il fuoco di un cerino per innescare un incendio…

Nel giugno del 1946 ero già divorziata. E lavoravo, parecchio, tanto che gli scatti per André De Dienes giunsero presto sulla scrivania della Blu Book School of Charm and Modeling, la più importante agenzia pubblicitaria di Hollywood, fate voi. Fu così che firmai il mio primo contratto.

Di lì a poco, fu la volta, pure, del mio primo contratto cinematografico, della durata di 6 mesi. Quando stabilii il patto con la 20th Century Fox, il regista Ben Lyon mi suggerì di cambiare nome. Oh, non ci volle molto a convincermi a rinunciare ad un vestito che, in fondo, non mi era mai appartenuto. E divenni Marilyn. Marilyn Monroe, con indosso il cognome da nubile di mia madre e quel richiamo a tale Marilyn Miller, attrice – si diceva allora – di rara e nota sensualità. Che onore, eh? Già, ma Io chi ero? Oltre che il compendio di pezzi di donne raccattati qua e là, cosa rappresentavo, in realtà? Cucita come Frankenstein, assomigliavo, tutt’al più, ad un mostro dalle sembianze di sirena. Una creatura verosimile, o forse neppure quello, creata ad arte. Ideata apposta per produrre sogni e pensieri… più o meno lascivi. E soldi, tanti.

Una bambola. Niente di più.

Arrivò, quindi, il primo film: The Shocking Miss Pilgrim, in cui si percepiva, appena, il suono della mia voce. Chiamatela pure gavetta. Era evidente che non andassi bene. Non per la Fox, almeno che, nel giro di poco, rescisse l’impegno. Ero reputata ‘non adatta’ al cinema, per insufficiente recitazione drammatica.

Non bastava la vita? Non era stata già crudele abbastanza?

Se c’è una cosa che mi ha insegnato Hollywood è come sdraiarmi. Dunque, fu breve il passo da soubrette a spogliarellista. Mi prostituivo lungo la Sunset Boulevard. Avevo bisogno di soldi e ‘quello’ lo sapevo fare. 50 dollari per posare nuda? Ma sì. Quando si è già perso tutto non rimane che svendersi. Mai avrei immaginato che lo scatto finisse, privo del mio consenso, sul calendario (sexy) di Miss Golden Dreams.

Sapete cosa mi valse? Una serie di ricatti. Riuscii a porvi fine, solamente diramando la notizia. Dichiarando la verità, invece di accanirmi ad occultarla. Ecco, allora, che quel nudo venne rivalutato. Censurata in molti Stati ma, parimenti, in copertina su Playboy.

Nel 1953, girai Niagara. Se Giotto fu il capostipite dei ritratti di schiena, la mia camminata, in quel film, bastò a far trasalire orde di fan. Deve essere stato il modo in cui ondeggiavo sui tacchi, tanto che si svilupparono fior di leggende al riguardo. Seguirono Come sposare un milionario e Gli uomini preferiscono le bionde. Cantavo, pure, per quei pochi che, meno intenti a divorarmi, avessero voluto concedersi il modo e il tempo, anche, di ascoltarmi. A quel punto, lo stereotipo era completo. Bella e tremendamente svampita. Mi criticavano: troppo succinta, troppo provocante, troppo… e, intanto, mi volevano. Di me ci si riempivano gli sguardi… e la bocca.

Carne da macello. E poco importa quel che c’è dietro.

Jane, Jane Russell, in una certa occasione mi descrisse come una ragazza “molto timida, molto dolce e molto più intelligente di quanto la gente potesse dar credito“. Cara Jane…

Di fatto, a soli 27 anni, mi ritrovavo in vetta alla Quigley Poll, la classifica degli attori di maggior successo commerciale. Una macchina da soldi, insomma, che faceva gola a molti. Riflettei. E’ ora di parlare, mi dissi: “Voglio crescere, svilupparmi e recitare importanti ruoli drammatici. […] ho una grande anima, ma finora nessuno se n’è interessato“, dichiarai al New York Times. Illusa…

Nel 1954, avvenne il mio secondo matrimonio. Il Lui in questione era Joe Di Maggio. Il famoso giocatore di baseball, avete presente? Ci amavamo. Mi amava, ne sono certa, ma era geloso all’inverosimile e violento. Una relazione, la nostra, a dir poco burrascosa. Ricordate la celebre scena in cui, in quel di New York, all’incrocio tra Lexington Avenue e la 52° strada, il vestito mi si solleva improvvisamente, sospinto dal vento proveniente da una grata? Al termine delle riprese mi picchiò. 9 mesi dopo eravamo già lontani.

Forse non ero adatta. Nel ruolo di moglie non ero un granché. Forse, per me, si prefigurava meglio quello di amante. Dunque, toccò, sia pur per un breve periodo, a Frank Sinatra. Altro tipino niente male. Finché, nel 1956, non incontrai Arthur. Miller era un drammaturgo, un letterato, un intellettuale, assai riservato. Lo adoravo, pendevo dalle sue labbra, ma probabilmente, non mi sentivo al suo stesso livello. ‘La bella e la bestia’, dove la parte della creatura indegna, ancora, in questa circostanza, era riservata a me.

Dire che cercavo di migliorarmi… leggevo in continuazione, componevo poesie. Mi dedicavo… ecco, sì, mi dedicavo. Da bambina ero stata dislessica e balbuziente. Ora quegli handicap erano superati, a fronte di altri che, invece, tardavano ad abbandonarmi. La paura, ad esempio, di rimanere sola. Il senso di vuoto… i farmaci, scopersi, avevano su di me un effetto placebo. Li usai. Ne abusai.

Cosa serve lottare per le pari opportunità sul lavoro, denunciare gli abusi, se poi passi solo per un’alcolizzata? Una tipa borderline, instabile, depressa…? Dunque, lontano da me tutti i ruoli di un certo peso. Le interpretazioni che, forse, avrebbero potuto salvarmi.

Nel 1961, chiuso anche il sodalizio con Miller, la dipendenza da codeina mi impose in ricovero volontario presso un istituto psichiatrico. Cosa altro poteva succedere? Successe John, prima. Poi Bob.

L’esibizione al Madison Square Garden per il 45° compleanno del Presidente degli Stai Uniti fu una specie di epitaffio. Mi ritrovarono cadavere, il 5 agosto dello stesso anno (1962), presso l’abitazione di Los Angeles. Nuda – pure da morta – e con in mano la cornetta del telefono. 36 anni e un’overdose – tale, almeno, fu repertata – dovuta ad un eccesso di barbiturici. Archiviato come suicidio e via. In pochi, allora, erano a conoscenza del fatto che avevo di recente abortito il figlio di Bob.

Sapevo. Sapevo cose che non avrei dovuto sapere…

Ecco. Mi sono dilungata, chissà, ma è difficile sintetizzare un’esistenza, per quanto breve. La mia si è disegnata così. marchiata da un cartellino bislacco che mi ha condotta ad avere tutto, per poi, nei fatti, vedermi scivolare tra le dita altrettanto.

Per paradosso, di intatto, in questa vita, è rimasto l’effimero. Non il talento, non l’applicazione, bensì la bellezza. Incisa lì, come un marchio di fabbrica che ti impone di essere quello e niente altro. Così, sono stata e sono, al sentore del mondo, Marilyn Monroe. Un’icona. Un’involucro vuoto, aggiungo io.

E pure da qui, lontana, continuo ancora ad urlare. Perseguo la mia disperazione. Voltatevi, almeno ora. Giratevi. Non ve lo chiedo, ve lo ordino, perché mi avete posseduta, abusata, vilipesa, assediata. Adesso pretendo un risarcimento.

Sono Norma. Norma Jean. Null’altro. Sono come tutti voi. Sono una di voi.

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