Belmondo, quanto ci dispiace che te ne vai…

Belmondo, quanto ci dispiace che te ne vai…

Facciamo finta che non sia così. Immaginiamo che non sia accaduto sul serio. Recitiamo. Del resto, l’attore non è forse colui, in grado di dare vita ad un personaggio concepito da altri, con estrema naturalezza e sensibilità? E allora facciamolo, sfruttiamole queste nostre doti e fingiamo. Ostiniamoci a credere – di uno schietto convincimento – che, all’età di 88 anni, il simbolo della Nouvelle Vague non ci abbia salutati, lasciandoci orfani di un carattere malandrino, irrequieto, tormentato quel tanto che bastava e ironico, da rendersi praticamente irresistibile.

A dimostrarlo, i flirt, numerosi e le storie, pure, importanti. L’uomo di Neuilly sur Seine, ma nelle cui vene scorreva sangue Italiano, lanciato da Allegret e con una luminosa e florida carriera alle spalle, ha deciso, un bel giorno di settembre, di farsi da parte. Insolito, dal canto nostro, abituati a conoscerlo unicamente come protagonista. Egocentrica calamita d’attenzione. E noi lì, zitti e muti, coercizzati – consapevoli e consenzienti – da quel suo fascino intrigante.

Dalla capacità ammaliatrice, che ci ha sedotti guardando ‘La ciociara‘ di De Sica, o ‘La viaccia‘ di Bolognini. La stessa, che ci ha convinti a seguirlo nelle sue imprese degli anni ’60, diretto dal Gotha del cinema francese e poi, ancora, ci ha definitivamente conquistati, grazie al successo planetario di ‘Borsalino‘, negli anni ’70.

E non siamo qui per stilare un elenco dei suoi film che, per questo, basta consultare un qualsiasi sito specifico, quanto, piuttosto, per ricordarci cosa voglia significare inseguire la strada del commediante.

Dicevamo, accantoniamola l’idea che si sia spento e invece, permeiamoci della convinzione che un interprete non muore mai, se non per finta, in scena, su ordine di chi lo dirige. Verosimilmente, piuttosto, egli vive e vive per mezzo degli strumenti che gli competono. A dirigerlo, la curiosità. Fame di sapere che si traduce in studio ed applicazione continua. Ha da essere colto, umile, preparato e dotato di una doppia anima. La prima, potremo definirla l’ingegnere, il cervello che tutto capta e tutto rielabora, a beneficio della scena. L’altra, permeata d’istinto. La pancia, con cui, giorno dopo giorno, fa esercizio di libertà.

To play, si dice in inglese, e allora, il ‘nostro’ gioca di una vita che si accavalla e si sovrappone, sia pur per il tempo del girato, a quella reale, sostituendola, in parte, a quest’ultima e respirando di un’aria, ancor più intensa e credibile di quella sussistente.

Eccolo, l’alchimista delle interpretazioni, che prende a sostegno della sua voglia di essere ‘altro’ corpo, voce e anima e li piega, a servizio delle proprie inclinazioni. Inutile domandarsi se di cupidigia si tratti o di necessità. Scalpita, per adoperare braccia, gambe, occhi… a comando, marionetta remissiva ma ambiziosa di catturare la scena. Come l’opera del più abile pittore, egli sa rubare la luce. Conosce i punti di fuga della macchina da presa e da lì parte, orientato verso il centro. Verso il fulcro di quel mondo, inventato eppure tangibile, sia pur per pochi istanti.

Sono. Non faccio‘, si ripete, fin tanto da rendersi quel che non è. Così, nel termine di poco, è prima un cieco, poi uno storpio. E’ un uomo iracondo o una donna che fugge. E’ vittima o carnefice. E’ obnubilato di malinconia o infiammato di piacere. Si finge controparte di un interlocutore che non esiste.

E, intanto – come si suole asserire in gergo – conduce la voce. La porta. Respira, di diaframma e le dona consistenza. Ne conosce e ne controlla il timbro, il colore, il tono. Rallenta, là dove serva, per concedere maggior credito all’interpretazione. La isterizza, qualora si renda necessario. Ma, sempre, la controlla.

E poi c’è il terzo elemento, quello, per certi versi, più insidioso. C’è l’anima, che si trascina appresso come un fardello pesante, perché non c’è fatto o dettaglio che possa passar via così, inosservato. Egli non simula i sentimenti. Li vive. Ce lo hanno insegnato Stanislavskij, prima. Strasberg, più in là. Un metodo, chiamato REVIVISCENZA. Il gioco – che di questo poi si tratta – del Bagaglio Emotivo, in cui le emozioni si vanno a ricercare in quella sorta di archivio costituito dall’esperienza. dunque, sonda, l’attore. Ripercorre passo passo il passato, per farlo rinascere – sotto inedite spoglie – nel presente.

E lo fa enfatizzando, se recita a teatro. Diversamente, sul set di un racconto cinematografico, minimizza, toglie, leviga via il di più, per concedersi lo stretto necessario. E’ davanti allo specchio. Solo con se stesso e la ridda di emozioni che lo abitano. Sa far posto a tutte, senza tuttavia lasciarsene impossessare. Le sceglie, piuttosto, sapiente. Le domina, le usa a piacimento, alla bisogna. E, nel mentre, vince i propri fantasmi…

Ecco, Jean Paul Belmondo inginocchia gli spettatori di un Cinema ‘importante’. Non siamo increduli ma tristi, giacché tutto questo, il parigino dallo sguardo intrigante lo ha messo in atto alla lettera ed ha raggiunto il proprio scopo. Il monumento di un fare pop che, a riguardarlo oggi, ci strappa ancora via un sorriso.

Tu vai. Noi restiamo ancora un po’… innamorati dei tuoi modi, ammaliati dai primi piani che ci hanno fatto voltare a guardarti. Lo facciamo ancora, imperterriti, che tanto, di uno così, non saremo mai sazi.

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