Molly: antesignana di tutte noi…

Molly: antesignana di tutte noi…

“Né la schiavitù né la servitù involontaria, se non come punizione per un crimine, saranno mai tollerate“. Parole, queste, che risalgono al 1850, quando la California fu ammessa all’Unione come Stato libero. Era la Costituzione a proclamarle. Eppure, dagli archivi di Stato pare che la schiavitù venisse praticata apertamente. Indipendentemente da tutto.

Non solo. Il 18 settembre dello stesso anno il Fugitive Slave Act – legge controversa approvata dal Congresso degli Stati Uniti – richiedeva ai funzionari governativi e ai bianchi, ai comuni cittadini bianchi, in qualsiasi Stato o territorio, di assistere attivamente i proprietari di schiavi nella riconquista dei fuggitivi. Nell’esercizio, in pratica, del dominio coatto di quanti avevano tentato di esautorarsi dai loro padroni.

In California, queste persone assoggettate lavoravano nelle miniere, nei terreni agricoli, nei vari insediamenti. Qualora avessero improvvisato la fuga, la sorte era già stabilita. Sarebbero finiti in prigione o – meglio o peggio è da vedersi – restituiti al legittimo proprietario. Oggetti, di cui approfittare, oppure disfarsi, semplicemente.

Mi chiamo Molly Williams e vi starete, immagino, chiedendo perché vi racconto queste cose. Ebbene, perché questa storia, in fondo, è anche la mia storia. Voi che abitate nell’era di internet, pigiate il dito – ve lo chiedo come favore personale – sulla tastiera. Componete il mio nome sul portale che, per eccellenza, si presta ad effettuare ricerche. Vi apparirà, ne sono certa, un’illustrazione datata 1818. Nella dida, in allegato, troverete probabilmente scritto, per quel che mi riguarda: “un bravo ragazzo dei pompieri, come molti dei ragazzi”. Già, io ero una schiava; una che lavorava per un ricco uomo d’affari. Prima ancora, però, e più di ogni altra etichetta mi appartiene l’emblema di primo pompiere donna della Storia.

Spegnevo gli ardori incontenibili delle fiamme. Lo facevo, persino sulla neve, immersa nella bufera: ci sono foto al riguardo, testimonianza di quella che, per me, era assai più che una passione. Quando la gente scappava, laddove i bianchi si fermavano, per evidente ritrosia, io entravo in azione. In fondo, rappresento, oggi, volendo consultare libri o reperti, niente altro che una vecchia negra di nome Molly. La schiava – lo ripeto – appartenuta a John Aymar. Uomo tutto d’un pezzo, ultimo rappresentante, forse, di una casta che soleva indossare pantaloni alla zuava. Si agghindava, giacca a coda lunga, calzoni al ginocchio, fibbie d’argento per le scarpe e si presentava, in tal maniera, al cospetto del mondo. Scusate, al cospetto dei suoi pari.

Benjamin, tra i suoi figli, si sarebbe poi distinto per aver fondato l’eminente casa mercantile Aymar & Company. Tutti mi descrivono come una donna sottomessa, vero. Ve l’ho ribadito persino io, per mia stessa bocca, ma dovete sapere che la mia libertà l’aveva riscattata mio marito. Peter aveva pagato. L’unica Signora del mio spazio su questa Terra, da un certo punto in avanti, ero io. Io, volontaria illustre – lo racconto con immodestia – della locomotiva n. 11. Benjamin – vi dicevo – all’epoca gestiva navi clipper. Commerciava brandy, porto, mogano, caffè. Li trasportava da New York alla California. Ci aveva ‘come dire’ – io e Peter – ereditati da suo padre. Poi, aveva scelto di venderci. Così, eravamo finiti nei pressi di Wesley Chapel, tra i metodisti. Abitavamo nel seminterrato della Chiesa situata nel quartiere finanziario di Manhattan. Prestavamo sevizio per 40 sterline, servi a contratto.

Peter era il mio orgoglio. Si adoperava nel ruolo di sagrestano responsabile degli edifici, della manutenzione e dello scavo delle tombe. Io, dal canto mio, cucivo e mi occupavo delle pulizie. Gli Aymar? Oh, beh, ho proseguito a lavorare per loro a lungo, come domestica. Lustravo la casa al 42 di Greenwich Street, cucinavo, mi prendevo cura dei ragazzi. Otto pargoli, destinati a crescere.

Vi parlo tanto degli Aymar poiché e da qui che parte il racconto delle mie vicende. Aymar si distingueva, di fatto, tra i volontari del neonato corpo dei vigili del fuoco della città. Un’occupazione di prestigio, badate bene, per cui accettò l’incarico con vanto, al seguito di parecchie figure eminenti, di molti ricchi commercianti. Al tempo, non esisteva alcun organo di Governo abilitato a procedere nel momento in cui fosse scoppiato un incendio; eventi – tra l’altro – che solevano ripetersi con una certa frequenza. Una scintilla fuori controllo sarebbe stata sufficiente, in breve, per spazzare via l’intero campionario di merce riposta negli enormi magazzini, posti lungo i moli di Lower Manhattan. Dunque, Aymar non perdeva occasione per controllare la sua roba e che non si verificassero spiacevoli sorprese e, nel mentre, portava anche me. Inizialmente cucinavo, anche lì e sgrassavo, spazzavo, lustravo… la stazione. Quando, poi, per un motivo o per un altro, scoppiavano le tante epidemie di influenza, febbre gialla, colera, mi adoperavo per la salute dell’equipaggio e finì per capitare, quasi per caso, di doverne sostituire alcuni elementi.

Divenni, mio malgrado, la “Volontaria n. 11“, quella riconoscibile dal grembiule a quadri, il fazzoletto a bandana piegato con cura sul seno e la ferita intorno alla testa, per la quale in molti mi ricordano. Quando scoppiò l’incendio, in William Street, occorreva darsi da fare. Tra i pochi che reggevano le funi c’ero anch’io e poteva essere quella l’unica occasione ma, in me, era scattato qualcosa di più potente; qualcosa di assoluto. “Io appartengo al vecchioLeven rispondevo, ogni volta che mi veniva posta la domanda. Un ‘vecchio toro’ su ci correre, ogni giorno.

C’è gente che ancora si domanda perché lo abbia fatto. Cosa, in verità, mi abbia spinta verso una scelta tanto audace: una natura autenticamente generosa, la paura, la necessità. Beh, sposate la risposta che la vostra mente preferisce, quella che vi sembra più onesta o più logica, o magari più veritiera. Fatto sta, ho trainato quel vecchio motore fino all’età di 71 anni. Davvero site convinti che l’abbia fatto unicamente per buona volontà?

Donna, riflettete, invece, su questo. Donna, in un’epoca remota. Mio marito, alla fine, aveva avuto successo. Era riuscito, addirittura, ad aprire una tabaccheria. Nostro figlio si era fatto prete: un abolizionista. Riguardo al mio datore, rampollo di buona famiglia sepolto nel cimitero di Green-wood, si conosce di più sul conto del suo funerale che in merito a tutta la mia vita…

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