…ritornando a parlare di Charlie

…ritornando a parlare di Charlie

Questa storia delle ninfette che ti inguaiano – devo ammetterlo – era tipico dell’epoca. Alcune intendevano fregarti nel giro di un istante. Altre erano più corposamente organizzate. Addestrate, ed equipaggiate, magari da mammà – a rovinarti l’intera esistenza. E i fessi come me ci cadevano, con tutte le scarpe…

Lei si chiamava Lillita McMurray. Nata ad Hollywood, il 15 aprile 1908. Madre messicana e padre irlandese, cresciuta sul versante povero del Sunset Boulevard. Nemmeno a farlo apposta, proprio nei pressi del mio studio. Ma torniamo a Lei, Lita. La fronte, non troppo alta, ne denunciava la scarsa intelligenza. In compenso, era sfacciata, la ragazza e – ve ne sarete accorti – lo spirito d’intraprendenza, a me, piaceva.

Oh, non fu un ‘colpo di fulmine‘. Non, almeno, nel senso che intendete voi. La prima volta che la vidi aveva 7 anni. Mi trovavo nella Taverna di Kitty ‘Ci-Sto’ e questo dovrebbe già dirvela lunga, al riguardo. Lì, Nana, la Signora McMurray lavorava come cameriera e, non potendo operare diversamente, si portava appresso la figlioletta.

Quella marmocchietta, con indosso un vestitino da quattro soldi e lo sguardo impertinente, nel giro di pochi secondi, mi conquistò; tanto che, a distanza di qualche buffa smorfia reciproca, eravamo piacevolmente accomodati ad un tavolo, intenti a sorseggiare tè e, occhiate complici, ci gustavamo una deliziosa fetta di torta al cioccolato.

A breve, la piccola si distingueva tra le fila delle ‘comparse’, nei miei film. Era un angioletto, in The kid (Il monello); una cameriera in The Idle Class (Charlot e la maschera di ferro). Era il 1924 quando, mentre giravo The Gold Rush (La febbre dell’oro), si presentò propizio il momento per una nuova interpretazione. Al di là del ruolo affidatole nella pellicola, ce n’era uno, assai più determinante, per il quale era stata formata, giorno dopo giorno, negli anni, dalla sua attenta e lungimirante genitrice. Come dire: il pollo, Io, era giunto al giusto grado di cottura.

A sedici anni, Lolita poteva vantarsi del nome scritto sulla porta del suo personale camerino (appartenuto, lo stesso, ad Edna Purviance).

Lita Grey: ritoccato, secondo le dinamiche dello spettacolo di allora e in omaggio, pure, al colore del gattino che, prontamente, le avevo donato. Era, adesso, a tutti gli affetti, la mia Diva-Amante, creata ingegnosamente a tavolino e che vantava, per le cronache: “aristocratici antenati spagnoli“.

Quando cominciammo a girare, ero determinato e mi diedi da fare in ogni modo, per mostrami positivo.

Tuttavia, Lita non era fotogenica e non voleva saperne di obbedire. Risultava goffa davanti alle telecamere e, nonostante i vari espedienti studiati a sua disposizione, il fascino, via via che le riprese procedevano, sembrava evaporare.

Un buco nell’acqua, insomma. Una fatica improba, per nulla. Almeno, fin quando, in un certo giorno, sul set affollato, sotto i riflettori roventi, mentre tentava invano, per l’ennesima volta, di esibirsi in un tango, Lita, d’improvviso, si mise ad urlare. Nel mentre, si teneva la pancia…

Incinta (secondo la volontà e i piani di mammina) e, perciò, destinata a venire impalmata dal sottoscritto, al più presto, per non incorrere nell’accusa di violenza carnale. Il 24 novembre 1924 eravamo ufficialmente marito e moglie.

I giornalisti (che, tra l’altro, non fecero altro che inseguirci ovunque) non poterono non notare (e sottolineare) il timbro del mio incarnato. Ero, stando ai quotidiani ‘grigio in faccia‘. Sfido io e ci fu persino chi, in serata, mi sentì mormorare: “Beh, ragazzi, è meglio del penitenziario, ma non durerà!“.

.

A 35 anni, ero prigioniero. Non tanto della mia sposa ancora infante quanto, piuttosto, delle mire ambiziose dei suoi parenti. Avevano fatto bene i conti, del resto, i McMurray. Stando ai loro calcoli, possedevo, al tempo, 16 milioni di dollari.

Dunque, il matrimonio andava ‘preservato’. Nei due anni successivi, la premurosa Nana venne, pertanto, ad abitare con noi. Presenza costante (e indesiderata), che si andava ad aggiungere a quella dei nuovi nati: Charles Spencer Chaplin Junior28 giugno 1925 e Sidney Earle Chaplin 30 marzo 1926.

Volendo semplificare, oramai le 40 camere, in quel di Beverly Hills, non erano più le mie. La situazione naufragò, quando la sera del 1 dicembre, rientrando dal lavoro, stanco e nervoso mi ritrovai, nell’ulteriore occasione, la casa ‘invasa’ da gente ubriaca. I festini erano all’ordine del giorno ed Io ne ero saturo.

Il 10 gennaio 1927 arrivò, in breve, l’istanza di divorzio. E’ bene sappiate, a questo punto che, durante i due anni d’inferno coniugale – chiamiamo le cose per quelle che sono – la piccola ninfa/mogliettina si era trasformata in un’insopportabile Santippe.

Ero alla stregua di un sorvegliato speciale, in pratica. Ogni uscita, ogni commento, ogni richiesta intima era prontamente riferita (e registrata) a chi di dovere, affinché tutto, alfine, risultasse documentato. Tanto che, quando mi decisi a riparare in casa di Nathan Burkan, il mio avvocato di New York, il patatràc era oramai fatto. Tutti i miei possedimenti erano stati sequestrati dalla banda McMurray, capeggiata dallo zio Ed.

Seguì, esaurimento nervoso. Quando, poi, mi ripresi, mi attendevano nuove amare sorprese. Tra queste, l’opuscolo di 42 pagine: Lamento di Lita Grey, fatto stampare in una tipografia clandestina che, in genere, si occupava di materiale pornografico, tesa a mettere alla berlina il rapporto in cui, in fin dei conti, avevo creduto.

Calunnie, offerte in pasto al pubblico, di cui si vendettero 10.000 copie, al prezzo di un quarto di dollaro l’una.

Ovviamente, non venivano risparmiati, nell’inchiesta, i particolari. Alla parola fellatio, schiere di ‘maschiette’ corsero a consultare il vocabolario. A quanto pare, la Signora Chaplin non voleva compiere “quell’atto indecente, degenerato, perverso e contro natura“, benché Io continuassi ad incoraggiarla: “Calmati, tesoro! Tutta la gente sposata lo fa!“. Stando ai resoconti, inoltre, la Querelante sottolineava di non aver mai “avuto rapporti con il Convenuto, nel modo consueto di una moglie con un marito!“. Mi chiedo, a questo punto, come le sia stato possibile concepire…!?

Vi dirò di più. Le accuse di Lita, presenti nel suo libercolo e ribadite, più tardi, in fase di dibattimento, si potevano riassumere in 5 punti:

  1. La Querelante è stata sedotta dal Convenuto
  2. Il Convenuto ha richiesto alla Querelante di praticare un aborto, non appena il concepimento è stato confermato
  3. Il Convenuto ha consentito a sposare la Querelante, solo dopo esservi stato costretto e obbligato e con la riserva mentale del divorzio
  4. Per favorire il divorzio, il Convenuto ha sottoposto la Querelante ad un calcolato piano di crudeltà e inumani maltrattamenti
  5. La sincerità e l’importanza di queste affermazioni sono dimostrate dall’immoralità dei discorsi quotidiani di Charles Chaplin e dalle sue teorie a proposito degli argomenti più sacri, che il Convenuto disprezza e deride

Immoralità, sottolineata, ad esempio, dal fatto che l’avevo invitata – per parte mia – costretta – dal suo punto di vista – a leggere L’amante di Lady Chatterley. Il mio, stando all’accusa, era uno sforzo pervicace nel “sabotare e corrompere i principi morali (della poverina ndr.) e distruggere il suo codice di intima decenza“. Non vi basta? Raccontò anche, Lita, che quattro mesi prima della separazione, le avevo proposto di trascorrere una ‘serata a tre‘. Io, Lei e una tipa arcinota per le inclinazioni perverse, a cui era solita dare sfogo.

Respinto, sarei sbottato. “Un giorno o l’altro perderò i nervi e ti tirerò il collo!“, le avrei inveito contro. Un mostro. Per parte mia, “ho sposato Lita Grey perché l’amavo e, come molti altri stupidi, l’amavo di più quando mi faceva dei torti e temo di amarla ancora. Rimasi sconvolto, quasi sull’orlo del suicidio, quando un giorno Lei mi disse che non mi amava, ma che dovevamo sposarci. Sua madre mi aveva consigliato varie volte di sposarla e Io le avevo risposto che ne sarei stato felice, se solo fossi stato certo di avere bambini. Io credevo, infatti, che la paternità mi fosse negata. La madre di Lita continuò a spingerla deliberatamente sulla mia strada. Fu Lei a favorire la nostra relazione“.

Questo, è quanto dichiarai. Fortuna vuole che non tutta la stampa fosse avversa: “Gli stessi imbecilli che poche settimane fa adoravano Charlie Chaplin, oggi non aspettano che di danzare intorno al rogo, mentre viene giustiziato. Chaplin sta imparando qualcosa, sulla psicologia della folla… Un processo con risvolti sessuali diventa una carnevalata, in qualsiasi angolo degli Stati Uniti si svolga…

Subodorata l’ipotesi che l’aria stesse cambiando, allora, il Clan si spicciò a modificare strategia. Minacciarono di rivelare i nomi (almeno cinque, certi) delle dame con cui mi ero intrattenuto, ancora sposato. Attrici famose e che, nell’eventualità, avrei rischiato di mettere nei guai. Tanto bastò, perché ci accordassimo. Non potevo infangare, d’altronde, la reputazione di Marion Davies; né delle altre. Lei, in particolare, mi aveva offerto rifugio spesso a casa sua, nelle notti in cui l’atmosfera, nella mia, si era resa irrespirabile.

Il 22 agosto 1927, perciò, terminata la sua recita di 20 minuti sul banco dei testimoni, Lita venne liquidata (e compensata) con un assegno di 625.000 dollari. Quanto passato mi aveva “fatto invecchiare di 10 anni“. Per proseguire a girare mi dovetti persino tingere i capelli.

Certo, ero libero. Via dall’incubo ma, a rifletterci bene, a quale prezzo?

LEGGI ANCHE: Accadde al Cinema…

LEGGI ANCHE: Quel triangolo costato troppo caro…

LEGGI ANCHE: Charlie e altre vicende 

LEGGI ANCHE: Quel pasticciaccio là, sull’Oneida

LEGGI ANCHE: Wally non ci pensare! …e Wally, non ci pensò più 

LEGGI ANCHE: Barbara, Alma, Juanita: tre ragazze per il ‘Conte’

LEGGI ANCHE: La ninfetta Mary e il satiro Desmond 

LEGGI ANCHE: Disastro ad Hollywood: la prima volta fu Olive Thomas

LEGGI ANCHE: Virginia: parabola di una Stella ‘cadente’