Salve, sono Ed Kemper

Salve, sono Ed Kemper

E facciamocelo questo viaggio attraverso la mente umana. Inoltrandosi nei territori più impervi – di solito – ci si accorge di ‘qualcosa’ che, pure davanti agli occhi, ci si mostra velato. Qualcosa che, spesso, non amiamo vedere di noi stessi. Troppo complicato farci i conti. Troppo doloroso ammettere di non essere quel che avevamo immaginato o quel che avremmo voluto. Decisamente biasimevole, ritrovarsi faccia a faccia con emozioni sconvenienti, scomode… talvolta neppure spiegabili.

Così, ci voltiamo, guardiamo altrove, facciamo finta di nulla finché, qualcuno, un Signor nessuno fino a quel momento, arriva a ricordarci a che punto siamo.

Ed ripercorre, nel carattere, il perfetto prototipo del serial killer. Quando si dice, per quella certa cosa: “Sei portato…“. Ebbene, ha sempre nutrito una verace – e vorace – predisposizione verso il crimine. Una carriera iniziata, pensate, a 15 anni. Che dire, si tratta di genuino talento.

Figlio non unico, ma unico maschio. Sagittario. Il che lo porrebbe tra i caratteri più schiettamente comunicativi e generosi dello zodiaco. Ma, evidentemente, quel 18 dicembre 1948, qualcosa deve essere andato storto. Uno stridore, che da sussurro si deve essere trasformato, negli anni, in urlo accorato. Si divertiva a torturare gli animali, raccontano le cronache. Li uccideva. Adorava appiccare incendi.

Ed il devastatore, assai probabilmente, manifestava un cuore, a sua volta, devastato. Quando i suoi si separarono, nel 1957, si trasferì in Montana, con la madre. Una donna, pare, violenta. Lo picchiava e lo umiliava di continuo. Lo costringeva a dormire in cantina, temendo potesse violentare la sorellina.

Del resto, non funziona così? Le prime esperienze si fanno in casa… Scappato, nell’estate del 1963, alla ricerca del padre, venne affidato, invece, ai nonni, che papà Edmund, di lui, non ne voleva sapere. Non, evidentemente, una grande idea. Il 27 agosto 1964 Kemper sparò all’anziana. “Volevo solo sentire cosa si provava ad uccidere“, si giustificherà poi. Per poi proseguire con il consorte, affinché “Non si arrabbiasse“. Niente male come prologo, se si pensa che il ragazzo non aveva neppure compiuto i 16 anni.

Era bravo a conquistarsi la fiducia della gente. Un manipolatore provetto, tanto da adescare persino, con i modi di fare, lo psicologo, che se ne prendeva cura presso l’Ospedale Psichiatrico Criminale di Atascadero. Ne divenne l’assistente, ci credereste? Si comportava in maniera esemplare. Per cui, dopo aver scontato una pena di meno di cinque anni di detenzione, venne rilasciato, in data del suo 21° compleanno. Tornò a vivere con la madre ma il ragazzino, adesso, aveva lasciato il posto a qualcos’altro. Un omone, di oltre 2 metri. 136 kg di pericolo. Una mina vagante, che rischierà di trovare impiego, addirittura, tra le fila dello Stato. L’ingresso in polizia, per fortuna, si rivelò infruttuoso.

Eppure, dietro quella facciata linda, Big Ed – così lo chiamavano amici e conoscenti – macerava marciume. Ci volle poco perché si passasse, uno via l’altro, a strangolamenti, assalti con arma bianca. Poi da fuoco… Poi, ancora, atti di mutilazione, necrofilia, cannibalismo. Non bastava mai..

Tra il maggio 1972 e il febbraio dell’inverno successivo, Kemper uccise sei autostoppiste, nella zona di Santa Cruz. Fece scempio dei loro cadaveri, senza battere ciglio. Prima di farle a pezzi le trascinava in casa, per scattare qualche foto ricordo, mettiamola così. Scatti hot, in tutti i sensi. I resti, più in là, si dovette cercarli in giro, sparsi sul ciglio della strada o in fondo alle scarpate. Questione di… creatività.

Un gioco macabro, perpetrato a lungo.

Ho divorato, in parte, la mia terza vittima“, racconterà dal carcere. “Ho tagliato alcuni pezzetti di carne che avevo messo nel freezer. Una volta scongelata, l’ho cotta in un pentolino, con delle cipolle. Poi, ho aggiunto della pasta e del formaggio“. Ammissione… vanto? Chi può giudicarlo?

Fino a quell’inesorabile 20 aprile. Era il momento che, colei che aveva causato così tanto disturbo, pagasse. La uccise nel sonno, a colpi di martello. Poi la decapitò, ne violentò il cadavere e posò la testa sulla mensola del caminetto. Un trofeo? Niente affatto. Più modestamente, un bersaglio per le freccette. Le strappò – si narra – financo le corde vocali. Poi le gettò nel tritacarne. “Non aveva fatto altro che urlare e infierire contro di me, per anni“, spiegherà. Come biasimarlo? Stessa sorte, che di sentirsi sicuri non si finisce mai, per la migliore amica della madre, la 59enne Sally Hallett. Appena varcata la soglia di casa, poteva già considerarsi morta.

Era convinto, senza che neppure lo cercassero, di trovarsi nel mirino della polizia. Assurdo, presa coscienza che nessun agente era sulle sue tracce, chiamò egli stesso, confessando gli omicidi. Otto, in meno di un anno, più i due commessi da adolescente. Una carneficina.

Si riporta di Lui che fu un detenuto modello. Laureato, fece da tramite tra gli altri detenuti e gli psichiatri, divenne un prolifico lettore di audiolibri per non vedenti e, a parte qualche contrasto con l’altro serial killer, Herbert Mullin, di cui si trovò, per un certo periodo, confinante di cella, rimase irreprensibile.

A parte questo, nessun segno di pentimento. Nessuna scusa ai parenti delle vittime, nessun rimorso, come se la coscienza si fosse inabissata. Per sempre.

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