Il fascino discreto… di parole orfane di volto

Il fascino discreto… di parole orfane di volto

Le attrici sono composte da due persone: quella che si vede e quella che si sente. Io sono quella che si sente“. Lo dichiarò, a suo tempo, una celebre doppiatrice. Come a suggerire che, in fondo, per chi fa un mestiere del prezioso strumento, esiste un destino già scritto.

Una sorta di condanna ‘a priori’, secondo la quale il doppiatore, benché nel curriculum vanti – magari – scuole di recitazione, titoli accademici, esperienze teatrali, prima ancora che cinematografiche, rimanga – comunque, relegato dietro l’angolo e si contraddistingua, anzi, per il fatto di non possedere una faccia.

Il volto, assurge, invece, a limite, delineando – suo malgrado – confini che il suono, al contrario, non prefigura.

Pensate, la categoria, un tempo, non era neppure citata nei titoli di coda dei film. Invisibile e ghettizzata. Una scelta, dunque, quella di intraprendere questo tipo di carriera, consapevole e malinconicamente già configurata.

Dire che, proprio in sala di doppiaggio, è iniziata – ad esempio – la carriera di Alberto Sordi o che quella di Giancarlo Giannini si è gemellata, vita natural durante, con quella di Al Pacino. Non tutti sono al corrente che il celebre urlo di Rocky, in cerca della sua “Adrianaaaaa“, giungeva al nostro ascolto per mezzo e merito – di Gigi Proietti. Così, il John Travolta ne La Febbre del Sabato sera ‘rubava’ le corde vocali a Flavio Bucci; l’Harrison Ford di Guerre Stellari altri non era che Stefano Satta Flores. Persino la rinomata frase: “quando un uomo con il fucile incontra l’uomo con la pistola, l’uomo con la pistola è un uomo morto” la pronunciò, a suo tempo, un gigante del teatro come Nando Gazzolo.

Insomma… tanta roba. Eppure, “il doppiatore è, da sempre, considerato un attore di serie B. Se fai casting per un film sei il primo ad essere scartato“.

Io stesso, agli inizi della mia carriera, non mettevo il doppiaggio nel mio curriculum, quasi fosse una colpa e una vergogna. Se lo dicevo a un regista, mi è capitato, mi faceva il verso e con voce impostata sfotteva: Buongiorno, sono un doppiatore”. Parole, queste ultime, di Giorgio Borghetti, che le ossa, eccezionalmente, se le fatte, anche come interprete. E che, adesso, rivendica a tutto tondo il personale talento.

E’ su queste premesse, infatti, che è nata l’idea di Captain T – La condanna della consuetudine. Un corto o, meglio, una tragicomica black comedy su un doppiatore prigioniero della propria voce, che non trova faccia, identità, lavoro per quello che è. Fatalità, “è lo spaccato, ironico e affettuoso, della vita di un uomo di mezza età, in crisi umana e professionale. Ma vogliamo anche entrare in un mondo sconosciuto e raccontarne le parti più nascoste”. Si preannuncia, insomma, come un film verità“. Concetto, peraltro, ribadito da Luca Ward e avvalorato, a sua volta, da Francesco Pannofino: “Provini per anni e non mi hanno mai scritturato. Non andavo mai bene: troppo brutto, troppo alto, troppo basso, grasso, magro. Con Boris la mia carriera è cominciata, ma a 50 anni“.

Ho voluto fare un film sugli invisibili. Accendere una luce nel buio delle sale di doppiaggio“, racconta Andrea Walts, giovanissimo regista, che parla del progetto come di un esperimento di meta-cinema, quasi interattivo. “Mi dicevano, ma no, lascia stare, i doppiatori sanno usare solo la voce, sono tutti impostati“, confessa. “Invece non è vero. Le voci hanno facce strepitose. E sono attori meravigliosi“.

Perché, per ribadire il concetto, nel cast, caso più unico che raro, ci saranno esclusivamente doppiatori. Persone, non tutte conosciute, che prestano parte di sé – verrebbe da dire ‘silenziosamente’ – alle Star, quelle sì, più eminenti di Hollywood: Robert De Niro, Leonardo Di Caprio, Tom Hanks, Kevin Spacey, Uma Thurman, Michelle Pfeiffer, Arnold Schwarzenegger, Scarlett Johansson…

Uno stuolo di volti che, altrimenti, senza l’adeguato coadiuvo, risulterebbero smarriti. E, del resto, a ben guardare, già in tempi non sospetti c’era chi, il concetto, ce lo aveva piuttosto chiaro e lo rendeva noto al mondo, disinvoltamente. Ci riferiamo a Claudio Sorrentino. “Non sono io che presto la voce ai divi del Cinema“, era solito ripetere. “Sono i divi del Cinema, che prestano la faccia alla mia voce”. Più chiaro di così!

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